Finale di partita

Bomba o non bomba siamo minacciati tutti

Siamo immersi in una guerra che come prima conseguenza ha quella di farci pensare di essere continuamente sotto attacco

Bomba o non bomba siamo minacciati tutti

Ancora uno stadio. Dopo lo Stade de France di Saint Denis il 13 novembre, dopo quello di Hannover il 17 novembre, dopo le partite cancellate a Bruxelles e in tutto il Belgio all'indomani degli attentati all'aeroporto e alla metropolitana. Adesso Old Trafford, Manchester, uno degli stadi più importanti del mondo. Sgomberato per timore del terrorismo. Non serve neanche una bomba vera per la paura. È sufficiente qualcosa che le assomigli. E ieri a Manchester c'era qualcosa che secondo la polizia sembrava proprio un ordigno. Doveva giocarsi Manchester United-Bournemouth, ultima del campionato inglese. Si giocherà un altro giorno, non si sa ancora quando. Non è certo che fosse il facsimile di una bomba messo lì per terrorizzare, per dimostrare, per lanciare un segnale. E tantomeno - ammesso che sia così - sappiamo chi possa essere il responsabile. E però il riflesso immediato è quello di pensare che sì, quella era una bomba o qualcosa che doveva somigliargli per spaventarci; e sì, il responsabile è qualcuno che si richiama all'Isis o all'estremismo islamico.

Siamo immersi in una guerra che come prima conseguenza ha quella di farci pensare di essere continuamente sotto attacco. La seconda conseguenza è che i luoghi del nostro svago siano l'obiettivo più desiderato, oltre che il più facile. Non ce lo siamo inventati, né è frutto di una nostra paranoia collettiva: il 13 novembre, con l'assalto allo Stade de France, è cambiato tutto. Abbiamo scoperto che quella sera l'obiettivo era fare decine di migliaia di morti nello stadio. E successivamente abbiamo sentito dai portavoce Isis che gli Europei di Francia saranno un possibile teatro di altre azioni violente e dimostrative. Sappiamo che ci potrebbero essere partite giocate a porte chiuse. Sappiamo che polizia e servizi segreti francesi si aspettano attentati durante Euro2016.

Il calcio è l'amplificatore che l'Isis cerca: non far giocare una partita è una vittoria a prescindere, non ha l'effetto che ha la morte, ma è più facile da realizzare, si rischia meno e ottiene il risultato di deprimerci, perché toglie le nostre certezze, ci fa vivere male il momento in cui dovremmo stare bene. Toglierci il rito collettivo del calcio è un'arma potente, non tanto per il calcio stesso, quanto perché mina il nostro diritto allo svago. Ci fa sentire indifesi, scoperti, in continuo pericolo. I tifosi dello United ieri hanno cantato fuori dallo stadio: «Di Jihadi John non ci importa, noi andremo a vincere la Coppa». Ci si può rincuorare con un coro che minimizza il rischio e la potenza dei terroristi, anche di quelli che ci siamo cresciuti in casa. Ma ha un sapore amaro: anche nei bunker di Londra durante gli attacchi nazisti si cantava per darsi coraggio. Ma per sconfiggere Hitler c'è voluta una guerra totale combattuta nelle nostre città, nei nostri quartieri, nelle nostre case. Contro il terrorismo islamico bisogna combatterne una molto simile.

Ma oggi nessuno ne ha ancora avuto il coraggio.

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