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Buffon e le lacrime più amare a 40 anni

Buffon e le lacrime più amare a 40 anni

Non è che uno piange per farsi vedere. È che qualche volta capita. Non riesci a nasconderti, neppure se hai le rughe sul volto e fai una vita da leggenda. Qualcuno dice che quelli come Buffon non dovrebbero versare lacrime. Non gli spetta. Non se le possono permettere. Solo che nella vita si piange, per cose stupide e per cose grosse, per sfogo o per fragilità, qualche volta senza neppure sapere bene perché. È umano. Accade pure ai cinici, ai bari, a quelli tutti di un pezzo, a quelli che non derogano mai dal proprio ruolo, quelli dignitosi e austeri o a quelli che hanno tanto o poco da farsi perdonare. Hai visto gente commuoversi per nostalgia, perché sono tornati nel posto dove sono cresciuti o in certi luoghi desolati dove comunque sono stati felici. C'è chi piange perché quella cosa lì proprio non se l'aspettava o perché sente un vuoto senza speranza per qualcuno che non c'è più. Si piange per i morti e per i vivi o perché ci hai messo tanto per raggiungere qualcosa o qualcuno che sembrava tutta la tua vita. Piangono perfino quelli che non ti aspetti, personaggi abituati da anni a portare una maschera contro per seppellire paure ed emozioni, baristi al loro ultimo giorno di lavoro, autisti di autobus che si sono persi, direttori di giornali con la fama da cattivi, e personaggi che si sono costruiti un pezzo alla volta una fama da duri. Un amico non è ancora del tutto convinto di aver visto con le guance bagnate senza ritegno, in lacrime, Franco Baresi a Pasadena, in quella finale finita male ai rigori di troppi anni fa, venticinque giorni dopo un'operazione al menisco. Non era il pianto di un campione, ma di un uomo che aveva fatto di tutto per rimettersi in piedi in fretta e aver capito che comunque non era servito a nulla.

Alla fine non è che si piange per una sconfitta. Vale per il gioco e per la vita. Quelle si incassano e si mettono da parte. Se bene o male hai vissuto sai che ti tocca fare i conti con le cicatrici. Chi non le ha è bravo solo a mentire a se stesso. Non è la sconfitta il punto. Le lacrime arrivano perché ti accorgi che la tua vita sta cambiando passo, nel bene o nel male senti che stai attraversando un incrocio, un nodo cruciale nella tua storia o nel tuo destino. Come una sorta di segnale, una magia, su quello che ti lasci alle spalle e su dove ti stai incamminando, quello che eri e quello che stai per diventare. A volte piangi perché assapori fino in fondo il sentimento del tempo. È quello che accade a Ulisse alla corte di Alcinoo, il re dei Feaci sull'isola di Scheria. Sta lì che mangia e chiacchiera, da straniero, senza rivelare il suo nome, quando si ritrova ad ascoltare le storie di Demodoco, cantore cieco che tanto assomiglia allo stesso Omero. Suono, voce e questo vecchio professionista si mette a raccontare l'arguzia di un comandante che riuscì a ingannare i troiani con un cavallo di legno. Ulisse scoppia a piangere davanti a tutti, quasi senza vergogna, non per la sua grandezza, non per la vittoria, ma per quel se stesso che è stato e non potrà mai più essere.

Odisseo quella bastarda guerra non la voleva fare, si era finto pazzo per non andarci, ci ha speso dieci anni della sua giovinezza e altri dieci passeranno per tornare a casa. L'inganno del cavallo è il guizzo che lo libera dal suo destino. È stanco e pensa a suo figlio e alla moglie. Non sa nulla di quello che sta accadendo a Itaca. Quella che fa è una furbata, che gli regala fama eterna ma di cui in quel momento non è neppure particolarmente orgoglioso. Eppure piange. Piange per la sua storia. Piange per tutto quello che ha vissuto. Questa non è solo roba da eroi o da grandi portieri.

È quel perdersi negli anni che tocca anche a noi poveri mortali.

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