Cronache

Il carcere val bene una cittadinanza

Per la Corte europea anche gli anni in cella contano nel computo dei 5 che servono per lo status di italiano

Il carcere val bene una cittadinanza

Servono cinque anni di residenza per ottenere un permesso di soggiorno permanente in uno Stato dell'Unione europea. Ma non necessariamente lo straniero, cittadino europeo, li dovrà trascorrere a lavorare regolarmente e a integrarsi nella comunità ospitante. Il conteggio varrà anche nel caso in cui li abbia passati dietro le sbarre, a scontare una condanna per qualche reato commesso nel Paese che lo accoglie.

Se infatti la Corte di giustizia europea seguirà un parere espresso nei giorni scorsi dall'avvocatura generale, nel calcolo dei requisiti per avere il soggiorno a lungo termine, verranno inclusi anche quelli trascorsi in carcere. Così, una volta uscito, l'ex detenuto recluso in cella avrà tutte le carte in regola per restare, a prescindere dalla fedina penale. Non solo, il periodo in prigione dovrebbe valere, secondo il procuratore della Corte Ue, il polacco Macjel Szpunar, anche per lo step successivo: raggiungere i dieci anni di permanenza necessari per non essere mai più allontanato «a meno che non sussistano motivi gravi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza». In altre parole, se il tribunale comunitario, che non è vincolato al parere, dovesse comunque accoglierlo, in futuro sarà impossibile espellere gli ex criminali.

Un provvedimento che potrebbe avere ripercussioni soprattutto sull'Italia, alle prese con un sovraffollamento carcerario che conta il 34,4% di detenuti stranieri, 19mila dei 56mila totali. Basti pensare che la maggioranza è composta da cittadini romeni, che sono il 15%, secondi per numero dopo i marocchini (il 17%),e seguiti dai tunisini (10%). Ciò significa che, essendo la Romania membro dell'Unione Europea, i detenuti, una volta scontata la pena, anziché essere rimpatriati potrebbero vedersi riconosciuto il premio del soggiorno permanente in Italia.

Non esattamente un deterrente per chi arriva nel nostro Paese sprovvisto delle migliori intenzioni. Una posizione, quella dell'avvocatura generale, espressa sul caso di un italiano che nel 1985 si trasferì nel Regno Unito. Condannato nel 2002 a 8 anni per omicidio, nel 2006 è uscito e ha vinto il ricorso contro la sua espulsione. Come se non bastasse, poi, con la Romania la macchina della giustizia italiana ha già le sue complicazioni. Infatti, nonostante ci siano ben due convenzioni che consentono di trasferire i condannati nei loro Paesi d'origine, le norme restano ancora inapplicate: su oltre duemila detenuti romeni presenti, nel 2015 i rimpatriati sono stati appena 110. Motivo? Certificati di condanna incompleti, costose traduzioni di atti giudiziari, imprecisioni nelle procedure burocratiche.

Un problema che ha richiesto l'intervento del ministero della Giustizia con una circolare a corti d'appello e alle procure. Ora la decisione della Corte Ue, attesa nei prossimi mesi, potrebbe bloccare definitivamente le partenze.

E consegnare il permesso di restare a chi varca la soglia del carcere.

Commenti