Cronache

Il centenario del «capitano» nato da una guerra di palloni

Wilfred «Billie» Nevill, il capitano, veniva dal Kent, aveva l'età che hanno oggi Kovacic e Berardi, e i baffetti alla moda dell'epoca. Giocava a rugby, a hockey, a cricket, era il più veloce della scuola, il primo della classe

Il centenario del «capitano» nato da una guerra di palloni

Il capitano dei capitani la guerra la faceva a pallonate e giocare alla morte, ai tempi suoi, non era un modo di interpretare la partita come piace a Conte ma l'unico modo di essere sulla trincea della Grande guerra. Wilfred «Billie» Nevill, il capitano, veniva dal Kent, aveva l'età che hanno oggi Kovacic e Berardi, e i baffetti alla moda dell'epoca. Giocava a rugby, a hockey, a cricket, era il più veloce della scuola, il primo della classe. Sapeva, come dicono quelli di oggi, che gli avrebbero rubato il futuro, non immaginava che nel futuro lui ci sarebbe entrato per sempre. La sua squadra era il reggimento East Surrey, il suo avversario i tedeschi, cattivi molto più di oggi. Comandava l'Ottava Compagnia, dalla sua ultima licenza, il primo luglio di 100 anni fa, aveva portato quattro palloni da calcio, comprati a Londra, uno per ogni (...)

(...) plotone, per farsi coraggio più che per spaventare il nemico perché sul fiume Somme si andava al massacro, due chilometri di terreno scoperto da prendere d'assalto, sotto il fuoco delle mitragliatrici, e nessuna possibilità di tornare indietro. Su uno dei palloni scrisse: «Primo luglio 1916, finale della Grande coppa europea di calcio. Battaglione East Surrey contro bavaresi. Calcio d'inizio all'ora zero». Sul secondo: «Nessun arbitro». Alle sette e mezzo del mattino andarono all'assalto sparando e calciando palloni, la sfida era andarseli a riprendere oltre le trincee, ridere in faccia alla morte, prendere il nemico in contropiede. Per conquistare trecento metri appena cadono in 60mila, Nevill muore vicino al filo spinato dei tedeschi, due settimane prima di fare 22 anni, nel primo giorno di una battaglia che sarebbe durata quattro mesi e mezzo. Li ricorda una ballata: «Attraverso la grandine della macellazione/ dove i compagni coraggiosi cadono/ dove il sangue viene versato come acqua/ loro spingono il pallone gocciolante/ La paura della morte davanti a loro non è altro che un nome vuoto/ fedeli alla terra a cui appartenevano/ quelli del Surrey giocarono la partita». Uno di quei palloni è oggi in mostra al Dover Castle, l'altro a Guilford, nel Queen's Royal Surrey Regiment Museum. Un terzo, ritrovato in una discarica, lo vuole comprare il Manchester United. Leggenda vuole che in memoria di quel giorno, di quei ragazzi e di Billie, il capitano, il giocatore cui viene delegata la rappresentanza della squadra nei rapporti con l'arbitro prenda il nome che ha adesso: il capitano.

Perché il capitano è l'esempio, l'ideale, il mito. Regale come Beckenbauer, futurista come Cruyff, guevarista come Maradona. Immolato alla causa dei poveri ma belli come Antognoni, Bulgarelli, Totti, o affidato a brutti con l'anima come Furino e Bruscolotti. La fascia al braccio è la sintesi di un valore e di una gerarchia, marca una differenza, elegge una guida, segnala un'eccellenza. È Maldini padre e figlio che vincono la Champions, i fratelli Baresi che si dividono Milan e Inter, Valentino Mazzola che capitano lo diventò da operaio tessile e meccanico dell'Alfa, o Puskas che era invece colonnello quando porto via l'Ungheria dall'Ungheria invasa dai russi, perché a volte capitano vale più di colonnello e non solo. «La verità - spiegava la disfatta Mussolini - è che tra i miei generali non ho mai avuto un Meazza».

I capitani una volta facevano la guerra ai re come Rivera con Buticchi e Juliano con Ferlaino, erano Mancini che ordinava a Boskov di non far entrare in campo Mikhailichenko, erano la morale e la credibilità del gruppo, l'anti italiano per eccellenza, cioè quello che si prendeva le proprie responsabilità. Ora che le bandiere non sventolano più e la guerra, quella vera, non si combatte in trincea ma nelle strade di tutti i giorni, il capitano lo decide la burocrazia, la contabilità delle presenze, Ranocchia capitano dell'Inter e Mexes del Milan francamente non si potevano vedere. C'è però Buffon, santino del Dio calcio, e niente ci rappresenta più di lui, a spiegarci che tutto può succedere nel calcio e oltre. Chi poteva immaginare del resto che quei palloni scagliati cent'anni fa dal capitano Billie sarebbero arrivati oltre i confini del Duemila.

Le partite in fondo non finiscono mai.

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