Politica

Il cercatore di applausi e i suoi 47 "ma anche"

Le banalità di Conte pronunciate con un tono da convention aziendale per solleticare gli applausi

Il cercatore di applausi e i suoi 47 "ma anche"

Vanitoso. In fondo non c'è nulla di male ad essere vanitosi, fin quando non si mette in piazza quest'umana debolezza permettendo agli altri di decifrarla attraverso il linguaggio del corpo. Fa perdere un sacco di punti sul tabellone. È come quel tale il cui cane aveva imparato a giocare a poker, peccato che agitasse la coda quando aveva un buon punto. E allora, l'ambizioso cattedratico Giuseppe Conte ieri in Senato sembrava che parlasse a una convention aziendale anziché davanti a una Camera del Parlamento. E purtroppo quasi tutti gli interventi della sua parte sono restati sulla lunghezza d'onda corta: enfatici, rabbiosi, pieni di complessi, desolatamente banali. Il leader, che imbarazzo, si umettava con la lingua il dito per voltare pagina come un vecchio parroco o una vecchia zia, e levava poi lo tesso dito umido per zittire i contestatori come un don Abbondio arrabbiato. Accanto a lui, i due vicepremier, suoi danti causa per essersi interdetti a vicenda per ottanta giorni, evitavano il contatto degli occhi e si fingevano alteri e svagati. Di Maio, visibilmente, rosicava. Era la prima volta che gli rubavano la scena, la prima volta nelle vesti di un vice, infastidito e possiamo capirlo. Peccato che si vedesse.

La banalità più vaga e ottusa, ma anche minacciosa, una clava di banalità, è stata la cifra del presidente del Consiglio che ha gridato concetti mai uditi e finalmente urlati, del genere che la criminalità è un male da combattere. Quanto alla giustizia, via la certezza della giustizia. L'eloquenza del primo ministro adottivo della prima coppia bicolore, appariva mediocre come si poteva notare dal continuo ricorso all'enfasi, urlo e abbassamento di tono, urlo e abbassamento di tono, scansione, urlo e abbassamento di tono per farsi coraggio nella confusione delle parole e la vaghezza reticente delle idee. Ha detto una cinquantina di volte (47, per l'esattezza) «non solo, ma anche», di veltroniana memoria, che è un intercalare usato come test per il rivelamento del pesce in barile che cerca i significati che non ha nel sostegno del pubblico. «Noi non siamo preparatevi all'applauso e non saremo mai ra-zzi-s-ti (voce improvvisamente arrochita) ma...». Alza la voce fingendosi emozionato, ma si vede che manca di empatia, non parliamo della simpatia. Non cerca i sentimenti degli altri, ma pretende di imporre i propri. È abituato, è accademico, è un giovane barone. Non ha sorriso mai. Neanche un cenno di leggerezza, un segnale di presenza di quella virtù democratica che è il senso dell'umorismo. Insomma, un Robespierre de noantri, un Saint-Just di periferia che non ha mai sentito la necessità di alleviare il peso delle contorte tenebre con un sorriso che andasse al cuore, magari in punta di pugnale. Tesissimo nell'ansia da prestazione, finiva con l'esser minaccioso per la pretesa di incarnare una grande autorità legittimata, lui che non è stato mai eletto e il cui curriculum messo alla griglia dei giornalisti americani ha creato dichiarato imbarazzo nel capo dello Stato che per qualche giorno si è sentito su Scherzi a parte. Tutto ciò che abbiamo sentito era purtroppo robetta da dopolavoro o da bocciofila ed era difficile sfuggire all'imbarazzo. Ieri per chi conosce le aule del Parlamento - è stata una giornata penosa, accordata su quella nota di rabbia latente e trasudante che chiamiamo antipolitica ma che contiene una nota disumana, ma perentoria. Il nostro pensiero solidale è andato al presidente Mattarella, che ha abbozzato. È il nuovo che avanza, si diceva trent'anni fa. È il governo del rinnovamento, si dice oggi. Ieri si trattava del quaranta per cento dei voti renziani alle Europee, oggi la tracima di quei voti hanno portato agli sponsali dei due partiti che si odiavano, almeno di fronte agli elettori, partiti che non hanno nulla in comune fra loro salvo aver fregato loro elettori che erano andati il 4 marzo a far muro ciascuno contro l'altro. Ieri abbiamo assistito a questo matrimonio campestre, ma i Carmina burana suonavano piuttosto come Carmina burina.

L'accademico dal curriculum creativo che ha fatto arrossire (lo ha detto lui) il presidente della Repubblica, ieri ha letto un programma nudo e senza coperture, ma con agenti di copertura, una nota della spesa di governo di cui non indicava quale fosse la vera spesa davanti a un'aula dove lui era un non eletto un tecnico, vil razza dannata e questo peccato originale rendeva ondivago anche lo stile, anche se lo stile è l'uomo. Come spiegare altrimenti il vai e vieni della pochette col fazzolettino bianco più da film su Little Italy che da democrazia futurista? Metterla? Toglierla? Prima c'era, poi era sparita, adesso ritorna con i gemelli. Infatti agitava i gemelli come se agitasse le manette. Forse sua eccellenza il primo ministro ritiene che vadano indossati per le grandi occasioni? Bisogna decidersi. Il vestito, helas, calzava troppo a pennello, come un guanto o un profilattico di fresco lana. Nulla a che vedere con l'abbigliamento appena trascurato di chi è veramente elegante e non vuole essere scambiato per lo sposo di campagna o, come capita a Di Maio, uno arredato per la prima comunione. Il premier per caso ha di sicuro esperienza di studenti e trasuda della perdonabile piccola boria dell'accademico. Ma si vede anche che è stato addestrato. Quando si ferma perché scatta l'App della pausa, lui si ferma e il suo ambiente antropologico si spella le mani. Gli si legge il sottopancia Applauso come negli studi televisivi per i quiz. L'applauso è confortante, ma si informi il premier in leasing il troppo stroppia: ieri la claque è stata convocata a botte di pause forzate e intimidatorie. Ci permettiamo di suggerirlo al primo ministro a sua insaputa, uno che si è fatto le gambe su e giù dall'alto Colle, dove ci si può presentare soltanto a piedi, in bici, con zainetto, monopattino, pattini, trolley, pur di occultare la voluttà dell'ambizione, ma anche di leadership, quella cosa che se uno non ce l'ha non se la può dare, come diceva Andreotti citando Manzoni. A proposito di citazioni, di quelle dei grandi russi di cui non si capiva il senso, delle altre non si coglieva la pronuncia, oltre che il senso.

Un discorso memorabile, perché sarà difficile dimenticarlo e noi abbiamo fatto voto di ricordarlo.

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