Cronache

Chi calpesta la Vittoria umilia solo i ragazzi del '99

Per questo, trovo che parlare di inutile strage, nel giorno in cui si ricorda la vittoria, sia offensivo verso chi andò al fronte per fare il proprio dovere e magari non fu fortunato come Alberto ma perse la vita

Chi calpesta la Vittoria umilia solo i ragazzi del '99

Ieri si festeggiava il centenario della vittoria italiana nella prima guerra mondiale. Si festeggiava nel senso che giornali e politici le hanno fatto la festa, smontandola pezzo per pezzo. Fu un'inutile strage, come sostenne Papa Benedetto XV in una storica lettera ai belligeranti. Non unì il popolo dalle Alpi alla Sicilia, come spesso si argomenta. Nord e Sud rimasero due mondi diversi. Il comportamento dei generali verso la truppa riottosa fu inqualificabile, tra fucilazioni sommarie e fuoco amico verso chi arretrava. Pose le premesse per il fascismo: il mito della vittoria mutilata e lo scontento dei reduci crearono l'atmosfera carica di violenza che Benito sfrutterà a suo vantaggio. Dimostrò, con la seconda guerra mondiale, che l'Europa unita è la strada maestra per un futuro pacifico. Ogni opinione porta con sé una parte (minore o maggiore) di verità. Forse l'Italia avrebbe potuto raggiungere i suoi obiettivi con un po' di buona diplomazia, scrive qualcuno. Quella stessa diplomazia fu però umiliata nel dopoguerra, nella conferenza di pace a Parigi dove la città di Fiume, che chiedeva di essere italiana, fu annessa al Regno dei serbi, croati e sloveni alla faccia dell'autodeterminazione dei popoli tanto sbandierata dagli Stati Uniti. Al netto di queste legittime discussioni, siamo sicuri di avere reso onore a chi impugnò il fucile? A mio avviso, no. Chiedo scusa se passo alla prima persona. Voglio raccontare una storia. Il protagonista è mio nonno, Alberto Gnocchi, nato a Pavia nel 1899. Quando l'Italia era allo stremo, la classe del '99 fu arruolata. Alberto era un liceale di buona famiglia. Per questo, l'esercito pensò bene di farne un ufficiale. Dopo un brevissimo corso d'addestramento a Orvieto, si trovò in prima linea sul fronte francese (ancora oggi il meno studiato). Era un diciottenne che doveva ordinare a uomini maturi, con famiglia, di uscire dalla trincea e gettarsi in combattimento tra le raffiche di mitragliatrice del nemico. Era una responsabilità tragica. Per guadagnare il rispetto dei commilitoni, si lanciava con loro, tra i primi. Fu gravemente intossicato dai gas nemici. Finì nella lista dei dispersi. Dopo avere atteso ulteriori notizie, che non arrivavano, la famiglia pianse Alberto come morto. In realtà era in ospedale, ad Aosta, privo di coscienza. Quando la riprese, dopo un periodo di convalescenza, tornò a Pavia in licenza, tra le lacrime di commozione dei genitori. Era come vedere un figlio resuscitato. Alla fine della guerra rimase in divisa per altri tre anni, a Chiavari. Interrogato su quel periodo, rideva sornione aggiungendo sottovoce che erano stati tre anni da incorniciare: si era divertito. Era un giovane ufficiale in una sbarazzina località di mare... Si congedò con il grado di tenente colonnello. Riprese gli studi e diventò avvocato. Alberto non era certo un nazionalista né un interventista. Era piuttosto un cattolico di ferro (e in subordine un monarchico). Guardava alla Chiesa più che allo Stato. Non parlava volentieri della guerra, doveva avere vissuto orrori inenarrabili. Però riteneva di avere fatto il suo dovere. Prima di morire, si fece fare una fotografia, tuttora nel mio salotto, in cui indossava i gradi e le onorificenze guadagnate sul campo di battaglia. Volle essere ricordato così, anche se era stato molte altre cose oltre a un soldato.

Per questo, trovo che parlare di inutile strage, nel giorno in cui si ricorda la vittoria, sia offensivo verso chi andò al fronte per fare il proprio dovere e magari non fu fortunato come Alberto ma perse la vita.

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