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Com'è moderno Ovidio

Com'è moderno Ovidio

Qualcuno sostiene che Virgilio sia perfetto per raccontare la pace dell'impero. È calma, abbondanza, fatica che trova approdo in qualche porto, destino e speranza. Quando invece devi fare i conti con la crisi, con l'ansia, con il disincanto di chi continua a sognare perché non sa fare altro, ma senza più illusioni, allora bisogna navigare in compagnia di Ovidio. È lo sguardo che cambia, lo sguardo sulla realtà, lo sguardo sul potere, lo sguardo su Augusto. Il primo, il maestro tanto caro a Dante, osserva la maschera dell'imperatore, colui che da mortale si chiamava Ottaviano, e ci riconosce gli dèi. Questa visione lo rassicura, c'è un senso nell'universo, esiste ed ha una forma definita, dove Dio, lo stesso Dio di Einstein, non gioca a dadi, ma è legge, morale, ordine, sicurezza, tutto ciò che serve agli umani per scacciare la paura della morte. Quello che Virgilio cerca è racchiuso nella filosofia di Parmenide: l'essere è e non può non essere.

Ovidio no, Ovidio non ce la fa a non ridere, perché quello che vede sul volto dell'imperatore è solo un'altra stupida finzione. La legge, la morale, la sacralità sono nude. Ridicola. Non puoi sfuggire all'incertezza del vivere e allora tanto vale danzarle intorno, rendersi invisibili a Dio, apparire e scomparire, cercando te stesso nel mutare eterno delle forme. È il panta rei di Eraclito. Tutto scorre. «La morte va espiata con la morte».

Tutti e due, Virgilio e Ovidio, si muovono sullo stesso filo, camminando in equilibrio su questa e quella sponda, dove da una parte c'è scritto sicurezza e sull'altra libertà. Non sono opposte, ma si parlano, come un codice binario di zero e uno, condannate alla relatività. Da che parte state? Questa volta con l'imponderabile, con Publio Ovidio Nasone, con il figlio di ricchi commercianti arrivato a Roma da Sulmona alla fine del secolo, pochi anni prima di quello che sul calendario gregoriano è l'anno zero, quando Giulio Cesare era già morto e Ottaviano stava per prendersi tutto. La colpa, e il merito, è di una meravigliosa mostra appena inaugurata alle Scuderie del Quirinale: Ovidio, amori, miti e altre storie. È stato come vederle le sue parole, come un mondo che appare all'improvviso e si mostra davanti a te, e ti parla di adesso, di quello che stai vivendo, della tua vecchiaia e della giovinezza perduta che ti ostini ad inseguire, con tutta la carica erotica e narrativa che c'è nei racconti di Ovidio. «Ho trattenuto gli affanni e ingannato il tempo. Questo è il guadagno che mi ha arrecato l'ora presente e non mi sono accorto di essere in mezzo ai Geti».

Il primo che ti appare è l'Ovidio relegato ai confini dell'impero, sul Mar Nero, a Tomi, quella che oggi si chiama Costanza, in Romania, costretto a vivere tra i barbari, condannato da Augusto e poi dimenticato da Tiberio. Per quale colpa? Non si sa, non lo dice. «Perché ho visto qualcosa? Perché ho reso colpevoli i miei occhi? Perché, senza volerlo, sono venuto a conoscere una colpa? Ho visto un crimine e la mia colpa è aver avuto gli occhi». Sono duemila anni che si sta qui ad ipotizzare il motivo. Magari perché si divertiva con Giulia Maggiore, la figlia di Augusto e moglie di Tiberio. Non fu il solo. Non si sa neppure con certezza che sia proprio lei la Corinna dell'Arte di amare. O forse per la figlia di Giulia, Giulia Minore, la nipote dell'imperatore, a cui Ovidio copriva le spalle nelle sue avventure. No, probabilmente non è solo sesso. Ovidio aveva visto il vero volto di Augusto, le crepe sotto la morale, fino a rinnegarne gli dèi. La colpa di Ovidio è amare e amarsi. È sfuggire alla pietrificazione di ruoli definiti e certi. È ribellarsi al proprio destino. È smascherare il potere. L'epica di Ovidio è l'epica del desiderio.

Gli dèi di Ovidio non sono senza peccato, sono imperfetti, meschini e falsi. Sono come i divi di questi anni di crisi, che ciarlano di etica e di moralismi ma non hanno più dignità. Ottaviano non può assecondare questa visione del mondo. Non può permettere che qualcuno veda il suo mondo per quello che è. Nessuno può dire l'imperatore è nudo. Non Ottaviano come persona, ma Augusto come fondamento di una società che si basa sulla legittimità degli dèi. Tutto quello che vedete è sacro. È l'unico racconto della realtà che si può fare, tutto ciò che va contro questa narrazione è empio. È falso. Il peccato di Ovidio è lo stesso di Aracne. È uno dei miti più profondi delle Metamorfosi. Aracne tesse e sfida con l'arte della trama e dell'ordito la stessa Minerva. Non si può fare. Primo peccato, ma la dea accetta la sfida e rappresenta la sua vittoria su Nettuno. Aracne sceglie di raccontare l'Olimpo, racconta Giove e i suoi figli, ma li fa umani, veri, con tutte le sfumature della loro miseria, con le invidie e le passioni, con le gelosie e le rivalità. Si sa come è andata a finire: Minerva fa di Aracne un ragno. La esilia dall'umanità. È questo il peccato di Ovidio e il senso della punizione di Augusto. È il castigo per chi sfida il potere, qualunque potere. Non basta vincere la sfida del talento. Non basta l'arte a salvarti. O uccidi il potere o scompari.

Virgilio è pietas, Ovidio è desiderio, mancanza di stelle.

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