Politica

Una condanna a morte per le aziende

Una equazione che non regge

Una condanna a morte per le aziende

«La corruzione è un cancro». L'ha detto nel 2015, ma l'ha ripetuto mille volte il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sempre in prima linea nel denunciare un problema che affligge il mondo italiano della politica e degli affari. E dunque i correttivi da lui suggeriti al codice antimafia da poco approvato, e da lui stesso appena promulgato, sono in linea con il suo pensiero, ripetutamente esposto in discorsi pubblici. E però. E però proprio l'equiparazione tout court tra mafiosi e corrotti tanto da poter ricorrere alla stessa misura patrimoniale restrittiva, il sequestro e la confisca dei beni, è stato uno dei punti più dibattuti, e controversi, del nuovo codice antimafia. E il «più confische» che il presidente Mattarella adesso chiede, ricordando che sono state «dimenticate» nel testo del codice antimafia alcune fattispecie di reato che consentono la confisca allargata, riapre il dibattito. E le perplessità.

Davvero più beni confiscati possono segnare la fine della corruzione nel nostro Paese? Il dubbio è stato espresso, da più parti. E non solo per ragioni eminentemente politiche quali la mancanza di garantismo in un sequestro dei beni indiscriminato. Il presidente Mattarella è sempre stato in prima linea nella lotta alla mafia. Oltre che capo dello Stato, è vittima della mafia che nell'80 gli ha ucciso il fratello, Piersanti. Sa dunque bene come il sequestro e la confisca dei patrimoni dei mafiosi sia stata un'arma importantissima per la lotta a Cosa nostra. Ma un conto sono i boss, altro i corrotti. E per quanto la corruzione sia un cancro, proprio come la mafia, l'equazione non funziona. L'arma della sottrazione dei beni per chi è accusato di corruzione, in un Paese come il nostro, può uccidere le imprese. In un'Italia che detiene tristi record di lunghezza dei processi, quanti innocenti, sì innocenti, visto che lo si è sino al terzo grado di giudizio, possono ritrovarsi ingiustamente privati di aziende, case, conti correnti per un'accusa di corruzione che alla fine, magari dopo dieci anni, si rivela infondata? E pure quando, acclarata infine l'innocenza, l'assoluzione arriva, cosa resta di imprese un tempo floride dopo anni di amministrazione giudiziaria? Un recente studio dell'università Cattolica di Milano ha rivelato che solo il 15% delle imprese finite in amministrazione giudiziaria in seguito a sequestri tra il 1983 e il 2013 è rimasta in attività. Il 15%, più o meno una su dieci. La maggior parte sono fallite, finite in liquidazione, scomparse. Magari ingiustamente. Più confische per tutti i reati in qualche modo legati alla corruzione e al malaffare, dice il presidente Mattarella. Ma forse, prima di un provvedimento tanto drastico, ci vorrebbe qualche altro correttivo: amministrazioni giudiziarie degne, non semplici traghettatori che portano l'azienda al fallimento; e processi veloci, con tempi certi soprattutto se di mezzo ci sono imprese confiscate. Perché nessun innocente, ed è capitato, si ritrovi con un pugno di mosche in mano.

Irreversibilmente rovinato.

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