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Il condono fai-da-te dei signori del web

Il condono fai-da-te dei signori del web

Stanno cambiando il mondo. Anzi, lo hanno già cambiato: hanno trasformato il modo in cui passiamo il nostro tempo libero (Facebook), cerchiamo informazioni (Google), facciamo acquisti (Amazon) e viaggiamo (Airbnb). Sono i colossi della nuova era globale, in cui affari e soldi si fanno sulla «nuvola» informatica formata da migliaia e migliaia di elaboratori collegati online. Un affascinante universo parallelo che, però, ha una caratteristica: sulla nuvola virtuale si fanno buoni affari anche perché spariscono le tasse. E i quattro Cavalieri del web, così come molte altre società che a loro assomigliano, il condono tributario se lo fanno da soli, ogni giorno che passa, riducendo a un rigagnolo irrilevante le imposte versate. Sono loro a stabilire le regole di un gioco che l'Italia, come gli altri Paesi, è di fatto costretta ad accettare.
Definire termini e cifre della «pace fiscale» dettata dai signori del web è difficile, perché i rappresentanti della «new economy» in una cosa sono vecchissimi: la mancanza di trasparenza. Nessuna delle società citate (con la parziale eccezione di Airbnb) fornisce, per esempio, i dati sul giro d'affari nel nostro Paese. Per ricostruirli bisogna fare ricorso a stime indirette, ricerche di centri universitari o degli uffici studi di associazioni di settore. Incrociando i dati a disposizione si ottiene una stima che appare mostruosamente alta, ma che è in realtà conservativa e prudente: nel 2017 i quattro giganti di Internet hanno realizzato nella Penisola un giro d'affari di 4,2 miliardi di euro. Una montagna di soldi di fronte alla quale stanno le somme pagate in imposte societarie. Qui ad aiutare sono i bilanci (...)
(...) depositati presso le Camere di Commercio, anche se gruppi come Amazon hanno spezzettato l'attività nella Penisola in otto o nove società diverse rendendo più complicata la ricerca. Alla fine, sommando tutti i dati, si ottiene un risultato: per l'attività dell'anno scorso le strutture aziendali basate in Italia dei quattro grandi gruppi hanno versato una dozzina di milioni (milioni). Una somma che vale il 3 per mille del giro d'affari complessivo.


MARCIA TRIONFALE
Sembra assurdo? Forse. Ma per capire la sproporzione tra le cifre in gioco bisogna partire da qualche caso concreto. Per esempio da Google e da Facebook. Entrambe le società vivono di pubblicità: il business è attirare l'attenzione di chi visita i loro siti e venderla agli inserzionisti. La tecnologia consente virtuosismi un tempo impossibili: se ricerco sulla pagina di Google informazioni sui nuovi modelli di aspirapolvere, nei giorni o nelle settimane successive sarò bombardato di banner proprio sugli aspirapolvere, articolo che evidentemente mi interessa. Se mi collego tramite telefonino il Gps dirà dove mi trovo e ad arrivarmi saranno annunci legati a quella specifica zona. Google raccoglie pubblicità anche per altri: chi gestisce un sito può fare un accordo con una società del gruppo che si chiama Adsense che lo retribuirà per i banner che accetta sulle sue pagine web.
Secondo l'Osservatorio Internet media del Politecnico di Milano la pubblicità digitale in Italia ha raggiunto nel 2017 i 2,68 miliardi. Tra il 70 e il 75% di questa cifra va ai due colossi Google e Facebook. Mantenendosi nella parte bassa della forchetta si tratta di 1,8 miliardi di euro. Google, molto più grande della rivale, dovrebbe raccogliere circa 1,2 miliardi, ma la sua consociata italiana fattura 95 milioni con imposte per 5 e un utile netto di 7. Il resto che fine fa? Va direttamente a Dublino, dove centinaia di persone lavorano per il mercato italiano. In Irlanda l'aliquota sugli utili societari è al 12,5%, ma grazie ai cosiddetti «tax ruling», gli accordi tra amministrazione finanziaria e società interessate, alla fine si paga anche meno. L'abilità dei grandi gruppi multinazionali è proprio quella di trasferire affari e utili nei paesi a fiscalità ridotta per versare il meno possibile e guadagnare di più. Questo gioco delle tre carte virtuale ha dei limiti, rappresentati da norme approvate dall'Ocse e fatte proprie dall'amministrazione fiscale italiana, ma la libertà di azione resta comunque ampia. Ai colossi del web comunque non basta, tanto che finiscono talvolta per esagerare e la stessa Google ha dovuto pagare al Fisco italiano più di 300 milioni di euro, tra multe e arretrati, per gli utili realizzati fino al 2015.


CAMBIO DI PASSO
Forse anche per questo la rivale Facebook ha appena annunciato un cambio di politica che diventerà operativo tra quest'anno e il prossimo: i ricavi pubblicitari non saranno più contabilizzati dalla sede internazionale a Dublino, ma dalle società presenti in ogni singolo Paese. La spiegazione: «Il passaggio a una struttura di vendita locale fornirà maggiore trasparenza ai governi e ai policy maker di tutto il mondo che hanno chiesto una maggiore visibilità sui ricavi». Una svolta di 180 gradi per chi, nel corso del 2017, con una raccolta in Italia stimata a 600 milioni, ne ha pagati solo 120mila di tasse sui profitti.
Anche il gigante della distribuzione Amazon ha dovuto arrendersi agli ispettori del Fisco: a fine 2017 ha accettato di pagare 100 milioni di arretrati per l'attività svolta nella Penisola fino al 2015. Da quel momento in poi ha però deciso di cambiare il modo di operare. La società ha aperto una partita Iva italiana, indice di quella che i tecnici chiamano «stabile organizzazione». Attraverso questa struttura i soldi degli acquirenti della Penisola finiscono come in precedenza a una società lussemburghese, Amazon Eu Sarl. La «stabile organizzazione» italiana, che non è tenuta a redigere un bilancio, è obbligata invece a presentare dei «conti» alle autorità fiscali per pagare qualche cosa anche da noi. Quindi, nel rispetto delle già citate norme dell'Ocse, un po' di imposte restano qua e un po' vanno nel Granducato.
E allora, che cosa paga di tasse in Italia la lussemburghese Amazon Eu sarl a cui vanno i soldi dei nostri acquisti online? La società si rifiuta di dirlo, in Italia non viene presentato un bilancio, quello del Lussemburgo non entra nel dettaglio. Con tutta probabilità praticamente nulla, specie se si fa il confronto con ricavi di 1,8 miliardi (il dato è frutto di stime del mondo della grande distribuzione).


PICCOLE SOCIETÀ
A pesare è anche la strategia della società fondata da Jeff Bezos: la società lussemburghese a cui fa capo l'Italia è in perdita: più che ai profitti il colosso del retail bada alla conquista di quote sempre più ampie di mercato abbassando la massimo i costi (vedi l'articolo a fianco) e spingendo sugli investimenti. Non è un caso che Amazon Italia sottolinei le somme spese nella Penisola (1,6 miliardi) e le assunzioni (5.200 quelle dichiarate entro fine 2018). A pagare un po' di tasse, una manciata di milioni, sono solo alcune delle otto piccole srl che forniscono servizi alla casa madre in Lussemburgo (dalla logistica ai call center) e che da questa vengono remunerate.
Il Fisco è un argomento delicato anche in casa Airbnb, il sito specializzato nell'intermediazione di appartamenti in affitto. Per il 2016 dichiarò di aver fatto incassare ai padroni di casa italiani 621 milioni di euro (non ci sono dichiarazioni successive), su cui il gruppo trattiene commissioni fino al 15%. Anche in questo caso però i soldi vengono versati direttamente in Irlanda, mentre la consociata tricolore, che fa attività di marketing e rappresentanza, su un fatturato di 3 milioni paga imposte societarie per 130mila euro. Il colosso Usa ha con l'erario un conto aperto. È ancora pendente il ricorso sulla cedolare secca al 21%: una legge dell'anno scorso obbligava gli intermediari a trattenerla per conto dei padroni di casa in caso di affitti a breve. Airbnb si rifiutò e la battaglia giudiziaria (tra l'altro Tar e Consiglio di Stato) continua. Il gruppo americano teme, accettando di fare da sostituto d'imposta, di trovarsi poi costretto a versare in Italia almeno una parte dei soldi oggi targati Irlanda.
Scaramucce, in attesa della madre di tutte le battaglie. Che per Airbnb, come per gli altri campioni di tecnologia con l'allergia alle tasse, non si svolgerà nei singoli Paesi europei ma direttamente a Bruxelles. L'Unione europea, facendo leva su un suo maggior potere contrattuale nei confronti dei colossi del web, ha proposto sulla loro attività nel vecchio continente l'introduzione di una imposta del 3%, calcolata non sui profitti ma sulle vendite. Per le finanze dei singoli Paesi sarebbe un regalo da 5 miliardi di euro.

Per i colossi Usa di Internet una catastrofe mai vista.

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