Cronache

Così 70 anni fa a Milano l'ultimo fucilato di Stato

In un poligono di tiro lungo viale Certosa, si celebrò per l'ultima volta nel capoluogo lombardo il macabro rito della morte di Stato

Così 70 anni fa a Milano l'ultimo fucilato di Stato

Alle 7,25 di questa mattina, saranno passati esattamente settant'anni. Come oggi, a Milano il sole era sorto da nove minuti. In un poligono di tiro lungo viale Certosa, si celebrò per l'ultima volta nel capoluogo lombardo il macabro rito della morte di Stato. Davanti a un plotone di esecuzione composto da giovani militi della polizia ausiliaria, andò a piazzarsi un giovanotto alto e massiccio, vestito con una giacca senza collo. Era pronto a morire. Ma quando vide la sedia che doveva ospitare i suoi ultimi attimi di vita, piazzata in modo che il condannato desse le spalle al plotone, si ribellò. "Non sono un traditore, sono un soldato", disse: perchè la fucilazione alla schiena era il trattamento più infamante che un condannato potesse ricevere. Ma non ci fu nulla da fare. Dovette andarsi a sedere a cavalcioni sulla sedia. Con il giovane ufficiale che comandava il plotone aveva fatto conoscenza pochi minuti prima: al saluto militare, il condannato aveva risposto alzando il braccio nel saluto romano. Una rapida salva di fucileria, ed era tutto finito. Era il 7 febbraio 1946. Ancora pochi mesi, e l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana cancellò definitivamente dal codice penale italiano la pena di morte. Oggi, a settant'anni di distanza, può sembrare lontana secoli l'epoca in cui si riteneva legittimo che il patibolo facesse parte delle sanzioni penali di una nazione civile. Ma negli anni Trenta, dopo che la morte era stata reinserita dal fascismo tra le pene previste dal codice penale, ad affrontare il plotone d'esecuzione furono imputati di crimini di ogni genere, compresi alcuni che oggi si sarebbero viste riconoscere corpose attenuanti: il primo giustiziato fu un giovane contadino che aveva teso un agguato al proprietario terriero che affamava la sua famiglia. L'ultimo giustiziato, il giovane ufficiale fucilato il 7 febbraio del '46, era invece un fascista dichiarato: si chiamava Giovanni Folchi, capitano d'aviazione, ed era stato condannato a morte per collaborazionismo dalla Corte d'assise straordinaria, i tribunali speciali creati per processare dopo la Liberazione gli irriducibili che erano rimasti accanto a Mussolini anche nei diciotto mesi della Repubblica di Salò. La storia di Folchi è stata raccontata pochi mesi fa da Luca Fazzo, inviato del Giornale, in un libro appassionante, edito da Mursia.

E' una storia appassionante perchè la cattura, il processo e l'esecuzione di Folchi sono calati in pieno nei mesi complicati e sanguinosi che seguirono alla fine della Seconda guerra mondiale. Mentre nelle strade di città e paesi del nord Italia venivano ammazzati senza processo migliaia di collaborazionisti veri o presunti, l'apparato giudiziario ufficiale cercava di dare anch'esso una immagine di severità e fermezza verso i crimini della Repubblica sociale: ma era uno sforzo assai poco credibile, anche perchè quasi sempre a celebrare i processi ai fascisti erano magistrati che erano stati fascisti anch'essi, facendo carriera sotto il regime di Mussolini e dopo avere giurato fedeltà al Duce. La rapidità nel voltare gabbana e ricrearsi, dando prova di zelo spesso eccessivo, una verginità antifascista fu d'altronde una caratteristica non solo della magistratura. Il processo a Giovanni Folchi era durato poche ore, aprendosi e chiudendosi nell'arco di una sola mattinata. Decisive nel portare alla sua condanna a morte erano state le testimonianze dei familiari delle sue vittime, i giovani antifascisti rastrellati dal battaglione azzurro dell'Aeronautica Repubblicana, e alcuni dei quali erano stati fucilati per rappresaglia al campo Giuriati. Ma ancora più cruciale fu la deposizione di un suo compagno d'arme, un altro ufficiale repubblichino di nome Luciano Fiocchi, che all'indomani del 25 aprile si era rapidamente riciclato sotto le bandiere partigiane. Folchi, durante il frettoloso processo, cercò di respingere le accuse del commilitone, negando di avere mai partecipato a rastrellamenti o a torture. Il quadro delle prove, ancora disponibili nel fascicolo custodito all'Archivio di Stato di Milano, dipinge la figura di uno zelante esecutore di ordini, privo di scrupoli nel condurre la battaglia contro i gruppi partigiani attivi nella periferia milanese: ma senza dubbio assai meno crudele di tanti altri che non vennero processati affatto, o che dopo il processo e la condanna riuscirono a evitare il patibolo, rinvio dopo rinvio, fino a quando la amnistia voluta dal leader comunista Palmiro Togliattii, ministro della giustizia nel nuovo governo, li salvasse dall'esecuzione e aprisse poi la porta alla loro scarcerazione dopo pochi anni. Folchi, invece, quella mattina di febbraio affrontò il suo destino da uomo.

Ad assisterlo fino all'ultimo fu Felice Pontiggia, in quegli anni cappellano del carcere di San Vittore, che racconterà poi la sua esperienza in un toccante memoriale, intitolato "Uomini al Calvario", inviato all'arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, poi diventato papa con il nome di Paolo VI.

Commenti