Cronache

Così abbiamo barattato la privacy con la comodità

Così abbiamo barattato la privacy con la comodità

Oltre la lista nera dei vip bollati come «taccagni» dai ragazzi delle consegne a domicilio, ed esposti ad una pubblica gogna riveduta e corretta secondo i canoni del Medioevo 2.0, c'è molto più di un'«azione dimostrativa». C'è un cambiamento di paradigma, un ribaltamento della fiducia tra cliente e fornitore di servizi alla base di ogni rapporto commerciale. Una bravata che può arrivare a minare dal profondo l'ordine del vivere civile. Esagerato? Niente affatto. Chissà quante volte, dopo aver ordinato la cena a casa o il pranzo in ufficio, abbiamo seguito sulle piattaforme delle principali catene di food delivery quella bicicletta che si sposta veloce in città fino a ritrovarcela sotto il portone. Ecco, immaginate che adesso accada il contrario. Lo mettono nero su bianco i rider ribelli del gruppo Deliverance Milano: «Ricordatevi sempre una cosa, clienti: entriamo nelle vostre case, vi portiamo il cibo e qualsiasi altra cosa vogliate, praticamente a tutte le ore del giorno... Sappiamo tutto di voi. Sappiamo cosa mangiate, dove abitate e che abitudini avete». È tutto vero, semmai approssimato per difetto.

Sulle app hanno memorizzato l'indirizzo di casa, che lavoro facciamo e il numero della nostra carta di credito, ma questo sarebbe l'ultimo dei problemi. Le aziende che raccolgono i dati sensibili sanno di noi molto di più: conoscono i nostri gusti in cucina o nell'armadio, quanto siamo disposti a spendere e quando, che cosa ci piace acquistare e in compagnia di chi, con quale frequenza e per quale motivo.

In cambio di comodità e velocità abbiamo barattato la nostra riservatezza un pezzo alla volta, una spunta dopo l'altra lasciata senza nemmeno leggere la scritta «accetto i termini e le condizioni dell'informativa sulla privacy». Già, la privacy, dal latino privu(m), ovvero isolato, ciò che sta davanti. E noi, sempre connessi e con l'illusione di avere tutto a portata di schermo, davanti alla difesa di quanto di più intimo ci appartiene abbiamo messo fin troppe cose. Di fatto, abbiamo rinunciato all'inviolabilità della nostra sfera privata pur di trovarci la spesa con un clic sul pianerottolo di casa. Niente di male, basta saperlo.

Sono lontani i tempi in cui i fattorini, com'erano chiamati fino a quando non si parlava di gig economy, avevano tra le mani niente più che un numero civico sulla bolla di carta. Oggi i rider hanno capito il meccanismo alla base del business. La transazione in sé ha un valore economico relativo, piuttosto conta la mole di dati personali che diventano la vera merce di scambio. Se pubblichiamo tutto - è il ragionamento dei collettivi di protesta - il valore dei dati tenderà a zero. Al netto dei risvolti legali di una simile iniziativa, è chiaro che la questione delle mance - peraltro non obbligatorie per definizione - è un pretesto.

Così com'è legittima la battaglia per i diritti di questi lavoratori atipici, visto che una trattativa nazionale è ferma almeno da sei mesi, dopo che i 5 Stelle li hanno sedotti in campagna elettorale e poi abbandonati una volta arrivati al governo.

Intanto, spulciamo pure con curiosità la lista dei calciatori e degli influencer che abitano in un loft in cima al Bosco verticale, però sono restii a lasciare qualche spicciolo in tasca ai ragazzi con la scatola delle consegne montata sulla bici.

Finché un giorno non finiremo tutti sbattuti al pubblico ludibrio, soltanto perché una sera non avevamo voglia di cucinare e abbiamo ordinato un sushi.

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