Economia

La crescita c'è ma non si vede

La crescita c'è ma non si vede

I dati mensili Istat di ieri sul lavoro, i penultimi prima delle prossime elezioni, regalano al governo Gentiloni un altro dato positivo. Il tasso di disoccupazione è sceso a novembre all'11%, il livello più basso dal settembre 2012. Il calo è minimo, 0,1%, ma coerente con l'onda lunga della ripresa in atto. Che ritroviamo nel Pil, atteso a +1,5% per fine anno, nella produzione industriale, nell'export. Eppure la percezione che nel Paese reale si ha di questa ripresa non è in linea con i numeri. Molte famiglie e imprese non si sentono ancora partecipi di questa ripresa. L'impressione è che siano tanti gli italiani colpiti dagli aumenti di capodanno delle tariffe energetiche e dei trasporti più di quanto non si sentano sollevati dalla congiuntura che li circonda.

Il punto è che, come abbiamo già scritto, questa ripresa che arriva dopo la peggiore crisi del Dopoguerra ha un Dna diverso da quello che avevano le riprese del secolo scorso. In estrema sintesi, le nuove tecnologie e la globalizzazione hanno causato una mutazione. E non tutte le componenti si rimettono in moto con la stessa forza. Avviene una selezione. Per cui il valore espresso da un indice quale il Pil riflette una media tra i fattori esterni, che tirano; e quelli interni, più fiacchi o fragili.

L'Italia che esporta, per esempio, vola: +2,6% il surplus dietro solo a quelli della Germania e del Giappone tra i grandi Paesi industrializzati. Mentre tra le componenti interne gran parte della crescita arriva da un settore, quello dell'auto, fatto da un mercato di sostituzione e di flotte aziendali, e un po' drogato dai chilometri zero. In altri termini, un comparto la cui buona vena è un po' fragile. Nello stesso tempo un settore di grande peso specifico come quello delle costruzioni stenta a decollare: l'associazione di settore, l'Ance, non perde occasione di ricordarlo, parlando apertamente di un trend che «non è stato agganciato dalle costruzioni». Una ripresa così è una ripresa incompleta quindi. Diversa dal solito. Tale per cui una crescita del prodotto nazionale nell'ordine dell'1-2% non implica più le dinamiche del passato in termini di salari, inflazione, consumi, pensioni. E soprattutto di lavoro.

Il dato di ieri è positivo, ma certo molto debole. E porta dentro di sé l'essenza di questa ripresa che sta più nei numeri che nelle case degli italiani: le imprese assumono poco perché non si fidano. Esauriti gli incentivi al Jobs Act, sono tornate a preferire le assunzioni a tempo determinato: nell'ultimo anno, a fronte di 450mila contratti a termine, ne sono stati siglati solo 48mila a tempo indeterminato. Evidentemente gli imprenditori credono nel presente, ma restano incerti sulle prospettive a più lungo termine. Anche perché hanno ben chiaro che molto del carburante che sta bruciando arriva dalla politica espansiva della Bce, destinata però a interrompersi presto. Forse già alla fine dell'anno.

Ecco allora che a poche settimane dalle elezioni ci piacerebbe che le forze politiche ci spiegassero con maggiore puntualità come intendono cambiare questa percezione della velocità a cui si muove il Paese. Senza promettere soluzioni dai costi insostenibili. In questa direzione fa bene il centrodestra a puntare sui superincentivi per le imprese che assumono a tempo indeterminato e sulla flat tax; così come va nella giusta direzione anche l'idea del salario minimo del Pd: è su queste proposte che vorremmo vedere un confronto serio, con numeri sostenibili su cui chiamare gli elettori a scegliere. La ripresa, quella vera, dipenderà da una credibile politica economica.

Non certo dal canone Rai o dalle tasse universitarie.

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