Cronache

Il cervello che ritorna in Italia

Al Salk Institute di San Diego (California) Dario Bonanomi studia i meccanismi molecolari che regolano le reti neurali e la loro alterazione nelle malattie neurologiche. Ora torna in Italia, al San Raffaele di Milano, dove guiderà un gruppo di ricerca tutto suo finanziato dall'Europa e da un'importante fondazione

Il cervello che ritorna in Italia

"Il nostro cervello è costituito da miliardi di cellule nervose interconnesse. La mia ricerca è rivolta ai meccanismi molecolari che regolano la formazione e mantenimento delle fitte reti neurali e alla loro alterazione nelle malattie neurologiche". Spiega così il suo lavoro Dario Bonanomi, biologo al "The Salk Institute for Biological Studies" di La Jolla (California). 

Laureato in Scienze biologiche all'Università degli studi di Milano con una tesi sperimentale all'Istituto scientifico dell'Ospedale San Raffaele, rimane lì per il dottorato di ricerca in un programma congiunto con la Open University di Londra. Concluso il PhD, prosegue con uno stage di post-dottorato al Salk Institute di San Diego, in California – il centro di ricerca biomedica voluto da Jonas Salk, realizzatore del primo vaccino contro la poliomielite, che ha avuto tra i suoi fondatori il Premio Nobel italiano Renato Dulbecco. Dopo 8 anni al Salk sta per rientrare in Italia, di nuovo al San Raffaele di Milano, per avviare un suo gruppo di ricerca con il supporto della Fondazione Armenise-Harvard e del Consiglio Europeo della Ricerca (Erc).

"La scelta di lasciare l'Italia per trascorrere un periodo più o meno lungo in uno dei grandi centri di ricerca esteri - spiega - non deve suonare come un "esilio" piuttosto come un'esperienza formativa altamente raccomandabile per ampliare i propri interessi e prospettive. O almeno così l'ho vissuta io, anche se non è stato facile inizialmente adattarsi a un nuovo ambiente".  Ora, dopo diversi anni, c'e' una certa resistenza a muoversi nel senso opposto". Timori per la decisione di tornare in Italia? "Nonostante il rientro obblighi a riconfigurare per certi versi in maniera sostanziale il proprio modus operandi per adattarlo a una realtà sociale, lavorativa ed economica diversa dalla California, l'opportunità di contribuire alla ricerca "made in Italy" ha un valore aggiunto che motiva questa scelta".

E spiega meglio il senso del proprio ragionamento: "Si parla molto di cervelli in fuga ma credo che il problema sia quello dei cervelli che non vogliono o non possono rientrare in Italia perché non trovano condizioni sufficientemente competitive rispetto a quanto offerto altrove. La formazione universitaria italiana è molto buona, quantomeno fino alla laurea, e anche per questo esiste un gran numero di ricercatori italiani eccellenti che si stanno specializzando all'estero e rappresentano una risorsa unica da riportare "a casa" creando delle prospettive attraenti di lavoro e carriera.

Com'è lo stato della ricerca in Italia?
Ci sono enti pubblici e privati che offrono un canale privilegiato per rientrare in Italia con strumenti adeguati per avviare un programma di ricerca di alta qualità e sarebbe auspicabile che queste iniziative venissero affiancate e sostenute da investimenti governativi sostanziali per creare un maggior numero di opportunità, non solo per tornare ma anche per continuare a lavorare mantenendo un livello di competitività elevato. La mancanza di fondi pubblici per la ricerca è un problema generale, che affligge anche paesi con una forte tradizione biomedica, inclusi gli Usa. Promuovere la ricerca di base e clinica in un clima di stasi o recessione è chiaramente difficile perché queste non sono attività che producono profitti immediati, ma vanno invece intese come un investimento a lungo termine con ripercussioni non solo sulla salute pubblica ma anche l'economia. Educare il cittadino e chi lo rappresenta a ragionare in questi termini è uno dei principali compiti della comunità scientifica e dell'Università.

Avresti qualche suggerimento da dare a chi può/deve attuare delle riforme in tal senso?
Si dovrebbe poi guardare a modelli e soluzioni adottate dai paesi nei quali la ricerca "funziona" meglio che da noi, per esempio evitando la dispersione dei finanziamenti, agevolando le donazioni e la partecipazione di enti privati, favorendo partnership con imprese, aumentando le quote destinate ai "costi indiretti" – overhead – che sostengono le infrastrutture e i servizi dei centri di ricerca (senza però sottrarre risorse ai ricercatori), promuovendo l'internazionalizzazione della nostra comunità scientifica (per esempio rendendo i programmi di PhD e postdoc altrettanto appetibili che quelli di Germania e Inghilterra), creando percorsi di carriera per ricercatori di vario livello e competenze che siano più lineari e meglio retribuiti... sono solo degli spunti che penso meriterebbero di essere presi in considerazione.

Come vedi la situazione nei prossimi dieci anni?
In generale sono ottimista su come la ricerca biomedica si evolverà in Italia nel prossimo decennio.

Le organizzazioni che promuovono la mobilità e rientro dei ricercatori continueranno ad avere un ruolo cruciale per fare in modo che quella italiana sia parte integrante della comunità scientifica internazionale e ne condivida standard, obiettivi ed esigenze. 

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