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Ecco perché mandare Bossi ai servizi sociali è un'assurdità

Ecco perché mandare Bossi ai servizi sociali è un'assurdità

Ha appena compiuto settantasette anni: se anche non avesse addosso i segni dei guai di salute che ha passato, Umberto Bossi si sta affacciando a quella fase della vita umana in cui più che badare si è badati. La notte, si spera, è ancora lontana: ma il crepuscolo incombe, e le energie sono quello che sono. Ti dai da fare, ti mantieni vivo, ma intanto tieni a portata di mano una sedia per tirare il fiato.

E invece no. Questa mattina un avvocato salirà le scale del palazzo di giustizia di Brescia, busserà alle porte del tribunale di sorveglianza, e chiederà che per un anno il Senatùr sia affidato in prova ai servizi sociali, per scontare la condanna che gli è stata inflitta nel 2017, e che il 12 settembre scorso la Cassazione ha reso definitiva. Non si parla, si badi, di diamanti in Tanzania, né di lauree comprate per il figlio, insomma dei tanti, disdicevoli modi in cui nella fase finale della sua leadership la Lega spendeva i soldi pubblici. Per quelli, pendono altri processi e la giustizia farà il suo corso. A fare di Bossi un condannato in via definitiva è una parola, una sola, pronunciata in un comizio a Bergamo nel 2011: «Terrone». Parola forse sgradevole (anche se nella versione popolare anche O mia bela Madunina si conclude benevolmente così) ma penalmente irrilevante: lo stabilì nel 1992 il pretore di Trento, in una lite tra condòmini, e la sentenza non venne impugnata. Ma Bossi ha avuto il torto di usare il trisillabo non verso un vicino di pianerottolo ma verso il capo dello Stato di allora, Giorgio Napolitano. Seguì denuncia per vilipendio, autorizzazione a procedere del ministro, condanna. Vilipendio: un reato di opinione, una roba da ancien régime che tutela solo alcuni individui o categorie il cui prestigio, chissà perché, viene tutelato più di quello di un operaio. Discutibile la gravità dell'epiteto, grottesca la norma. Ma Bossi viene condannato.

E a questo punto la giustizia, inesorabile, fa il suo corso. Parte l'ordine di esecuzione. E gli avvocati di Bossi si trovano davanti alla scelta: invocare le condizioni di salute, col rischio che venga chiuso ai domiciliari nella villa di Gemonio, o provare a chiedere l'affidamento? La scelta è ovvia. Ma quale lavoro utile, quale prova di reinserimento potrà mai dare un uomo che ha bisogno di cure quasi continue? Si dirà: anche Berlusconi andò ai servizi sociali per un anno, e se la cavò benone. Ma altra tempra fisica, altre circostanze umane.

Ed è proprio delle circostanze umane che i giudici di Brescia dovrebbero tenere conto, quando la richiesta arriverà sul loro tavolo.

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