Cronache

Il fascismo si combatte studiandolo

Sul Ventennio solo allarmi retorici e dibattiti inutili mentre sulla Resistenza c'è un istituto in ogni provincia

Il fascismo si combatte studiandolo

Gira e rigira, alla fine ci si ritrova sempre, irrevocabilmente, al punto di partenza. Grandi allarmi sul risorgente pericolo fascista, qualche corteo (più nutrito e reclamizzato del solito se politicamente utile, vedi i Cinquestelle a Ostia o il Pd a Como), pomposi proclami sulla necessità di una presa di coscienza, soprattutto da parte delle giovani generazioni sulle profonde, tenaci, mai divelte radici del «male assoluto». Da ultimo, però, subentra un deludente rompete le righe che lascia rifluire la scottante questione nel rimosso della memoria di un Paese restio a fare i conti con la propria storia. Pronti, ovviamente, alla prima bravata di qualche nostalgico (vedi il caso del bagnino di Chioggia che quest'estate ha tappezzato lo stabilimento balneare di foto e frasi di Mussolini); al - periodico! - scoop sullo scandalo del continuo pellegrinaggio di estimatori del Duce alla tomba di Predappio; alla notizia di qualche spettacolare blitz di irriducibili, emuli dei «ragazzi di Salò», ad una pacifica riunione di un'associazione (alla stregua della recente incursione di quindici militanti del Veneto Fronte Skinheads nella sede di Como senza frontiere) o alla sede di un giornale o alla pubblicazione di un'inchiesta sull'«onda nera» montante in tutta Europa; siamo pronti - si diceva - a riprendere l'antico, irrisolto dibattito sulla permanenza del fascismo nell'Italia repubblicana, sul mai debellato pericolo eversivo che incombe sulla nostra democrazia, sulla conseguente necessità di attuare una costante «vigilanza antifascista». Siamo pronti, insomma, a risollevare l'annosa questione ripartendo dal punto in cui l'avevamo lasciata. Una sorta di coazione a ripetere o, meglio, una pervicace riluttanza a dar corso agli altisonanti propositi di «sradicare - quante volte lo si è ripetuto - la mala pianta del fascismo». Una mala pianta che affonda le radici - si è autorevolmente detto - nella storia d'Italia, tanto da essere indicata addirittura come «l'autobiografia della nazione». Un male così grande, così intrinseco al «carattere degli italiani» - Eco parlò di Ur-Fascismo, di Fascismo permanente - come si può pensare di debellarlo con semplici palliativi come occasionali mobilitazioni di piazza, o stentorei appelli alla coscienza antifascista dei democratici?

Per riuscire in un'impresa di tale portata ci vuole un impegno che, per usare un'espressione abusata al tempo delle grandi mobilitazioni di piazza, si definiva «di lunga lena». Scuola, cultura, ricerca, politica, ad ognuno la sua parte, si dovrebbe concludere. Ma qui, vien da dire, casca l'asino. Dov'è finito l'impegno ministeriale a concentrare lo studio della storia nelle ultime classi delle superiori sul Novecento? Per quale ragione da noi l'insegnamento della storia non è impartito da laureati in storia, ma da docenti specializzati in altre discipline (in genere letteratura o filosofia)? Perché alle grandi questioni tuttora divisive dell'opinione pubblica si riservano solo «giornate» rituali («giorno della memoria», «giorno del ricordo», ecc.) o feste nazionali (25 Aprile) e non stabili luoghi di ricerca, di riflessione e di approfondimento che sappiano parlare (doverosamente con il linguaggio dei nostri tempi) ai giovani? Perché, ad esempio, si è dovuto attendere che prendesse l'iniziativa la Germania per avere un Museo degli internati militari italiani (più di seicentomila)?

Proporre un Museo del fascismo equivale ad essere sospettati di resa al nostalgismo. Tanto più, se si prevede di collocarlo in un luogo evocativo del fascismo: Predappio o Salò. Non fa niente, sia detto tra parentesi, se a Dongo ne è già stato aperto uno senza (giustamente) nessuno scandalo. Si dà per scontato che diventino Templi del Nostalgismo e del Reducismo. Non si riflette abbastanza sul fatto che non è il luogo in cui si colloca un museo o il tema cui è dedicato a qualificarlo, ma il modo in cui si tratta l'argomento. A Berlino è stata allestita una Mostra su Hitler e nessuno ha avuto alcunché da eccepire. Cosa osta a che si tratti il limite o, se si preferisce, il condizionamento di una località cara ai nostalgici come una risorsa? Cosa vieta che il temuto Pellegrinaggio del Ricordo (nostalgico) non si trasformi in un Percorso della Memoria (critica)?

Meglio dei Musei - si sostiene - sarebbero i Centri studio. Peccato che a distanza di settant'anni non se ne veda ancora l'ombra, a differenza della mole degli Istituti della Resistenza operanti praticamente in ogni provincia. Quando a fatica si è riusciti a dar vita a qualcosa del genere (come è stato nel caso del Centro di studi e documentazione sul periodo storico della Rsi, sorto a Salò una decina d'anni fa) si è pensato bene di sovraccaricarlo di compiti (ricerche, convegni, pubblicazioni, seminari, didattica per gli studenti) salvo poi dimenticarsi di dotarlo di risorse, non diciamo adeguate, ma nemmeno minimali. Se non fosse per la caparbietà e la generosità del comune di Salò e, in parte, della Provincia di Brescia, avrebbe già chiuso.

Amara conclusione: l'abissale discrepanza tra l'enormità della sfida assunta e l'impegno poi profuso la dice lunga sull'aleatorietà, sulla precarietà, sull'occasionalità dei propositi enunciati e degli allarmi lanciati.

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