Cronache

Un Giudice all'avvocato: "Non hai le palle". Condanna in Cassazione

Un giudice non può dire pubblicamente ad un avvocato "non hai le palle": neanche se per una coincidenza il magistrato e il legale sono cugini

Un giudice non può dire pubblicamente ad un avvocato "non hai le palle": neanche se per una coincidenza il magistrato e il legale sono cugini. Lo ha stabilito la Cassazione, annullando la sentenza con cui un giudice di pace di Brindisi era stato assolto dall'accusa di ingiurie. Per assolvere il magistrato, i suoi colleghi del tribunale di Potenza, cui il caso era stato trasmesso per competenza ( una toga non può essere giudicata nella stessa sede giudiziaria dove presta servizio) si erano rifatti ad una vecchia sentenza della Cassazione, secondo cui l'espressione " non mi rompere le palle" non é un insulto ma una colorita esortazione. Come giustamente fa notare la Cassazione, tra le due espressioni c'è in realtà in abisso di significato, perchè dire a qualcuno "non hai le palle" significa accusarlo di essere privo di quei requisiti fisici e caratteriali che ("a torto o a ragione", specificano i giudici dela Suprema Corte) sono considerati indispensabili per fare bene il proprio lavoro. Purtroppo, come spesso accade, la sentenza della Cassazione si limita a ragionare in termini giuridici, e non entra nel dettaglio più appassionante della vicenda: cosa diavolo sarà successo, perchè il giudice accusasse così platealmente di mollezza il parente avvocato, incontrandolo davanti a tutti nel tribunale di Taranto?

Ecco il testo della sentenza, così come pubblicato sul sito www.diritto.net.

"Il Triibunale di Potenza, in riforma della sentenza del giudice di pace della stessa città, ha assolto G.A. dal delitto di cui all’articolo 594 cp per aver rivolto al cugino G.V., nel tribunale di Taranto, la frase “non hai le palle”. Secondo i giudici di appello, certa essendo la materialità dell’episodio, manca un’effettiva carica offensiva alla espressione utilizzata dall’imputato, perché inquadrabile nell’ambito di una contesa familiare. Di qui la formula assolutoria “il fatto non sussiste”.

Ricorre per cassazione il difensore della parte civile e deduce illogicità della motivazione.

Il tribunale, citando giurisprudenza non in termini, ha ritenuto non offensiva la grave espressione adoperata. Ebbene la giurisprudenza citata è relativa a diversa frase (“non rompere le palle”), frase che, nel caso allora in esame, era equivalente ad un invito a non intralciare la condotta di chi la pronunziò, a lasciarlo proseguire nella sua opera, a non frapporsi alla stessa. Nel caso, viceversa, oggi in esame, la frase sta a significare “non hai gli attributi”, vale a dire che essa consiste consiste nell’affermazione che il destinatario vale meno degli altri uomini. L’espressione è ancora più grave perché pronunziata in ambiente di lavoro (...)

Il ricorso è fondato. La sentenza impugnata va annullata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

In tema di delitti contro l’onore, il giudice di legittimità può e deve apprezzare se il decidente di merito abbia assunto la corretta determinazione con riferimento al valore sociale delle espressioni utilizzate. Orbene, la giurisprudenza citata nella sentenza impugnata non è pertinente; essa invero si riferisce all’utilizzo di espressione volgare, ma non necessariamente offensiva nei confronti del destinatario. Nel caso in esame, viceversa, a parte la volgarità dei termini utilizzati, l’espressione ha una evidente e obiettiva valenza ingiuriosa, atteso che con essa si vuole insinuare non solo, e non tanto, la mancanza di virilità del destinatario, ma la sua debolezza di carattere, la delmancanza di determinazione, di competenza e di coerenza, virtù che, a torto o a ragione, continuano ad essere individuate come connotative del genere maschile.

L’inutile digressione sulla causale dell’insulto nulla può aggiungere alle obiettiva valenza dello stesso. Manca viceversa qualsiasi considerazione circa il luogo nel quale si svolsero i fatti e dei ruoli che in detto ambiente rivestivano i protagonisti. Invero, per quanto si apprende, l’imputato era giudice di pace in Brindisi e la persone offesa è un avvocato. La frase fu pronunziata in contesto lavorativo (ufficio giudiziario), a voce altra ed era udibile anche da terze persone. In tali circostanze il pericolo di lesione della reputazione di G.V. non poteva essere aprioristicamente escluso sulla base una pretesa “evoluzione” del linguaggio e volgarizzazione delle modalità espressive".

Pertanto la assoluzione viene annullata, e il giudice dal linguaggio colorito dovrà affrontare un nuovo processo.

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