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Le priorità dell'Europa: impegno sul clima e lassismo sull'Isis

Le priorità dell'Europa: impegno sul clima e lassismo sull'Isis

L'illusione è morta sul Ponte di Londra. Pensavamo di avere sconfitto il terrorismo islamico, invece avevamo soltanto vinto la battaglia contro l'Isis. Alla lunga, dunque, le riconquiste di Mosul e di Raqqa o l'uccisione di Abu Bakr Al Baghdadi serviranno a poco. Come già successo con Osama Bin Laden altri si fregeranno del titolo di Califfo e riprenderanno la lotta al suo posto. E infatti Usman Khan, l'accoltellatore del Black Friday già militante di Al Qaida, non c'ha messo molto a rimpiazzare i «lupi solitari» dello Stato islamico che su quel ponte seminarono paura e morte nel giugno 2017.

Ma siamo in grado di sostenere una guerra di lunga portata contro l'islam radicale? La domanda riguarda soprattutto noi europei. Elencando le urgenze della Commissione Ue la presidente Ursula von der Leyen ha messo al primo posto la lotta ai cambiamenti climatici. Non ha speso manco mezza parola sulla sicurezza e sulla necessità di contrastare il ritorno del terrore islamista. Un'omissione di non poco conto per un ex ministro della Difesa di una Germania dove centinaia di jihadisti hanno abbracciato la causa del Califfato mettendo a segno stragi e attentati. Alla luce dei fatti di Londra quell'omissione segnala una grave inadeguatezza. Un'inadeguatezza condivisa da decine di altri leader europei, ma pur sempre gravissima. Soprattutto mentre la Turchia, un paese della Nato già candidato all'entrata nell'Ue, si prepara a espellere centinaia di quei militanti europei dell'Isis a cui i suoi servizi segreti hanno a lungo garantito ospitalità e appoggi. Militanti provenienti, in molti casi, da quel meridione dei Balcani attraversato da una rotta migratoria che potrebbe facilmente traghettarli a Trieste o a Vienna. Usman Khan, l'assassino del ponte di Londra, libero di uccidere nonostante la condanna a sedici anni inflittagli per avere pianificato un attentato alla Borsa di Londra, è la cartina di tornasole della faciloneria e dell'inadeguatezza con cui il Vecchio continente affronta la lotta alla minaccia islamista.

A quindici anni dalla strage di Atocha a Madrid, l'equivalente europeo dell'11 settembre, i paesi dell'Unione europea non si sono ancora dotati di leggi e tribunali speciali capaci di garantire detenzioni più lunghe e sospensione dei benefici di pena per i terroristi islamici. Una lacuna gravissima che impedisce, tra l'altro, di rimpatriare, condannare a pene adeguate e tenere in galera i circa 1.200 militanti europei dell'Isis detenuti nelle prigione curde in Siria. Ma l'incapacità d'imporre la certezza delle pene ai colpevoli di terrorismo è anche il sintomo di un'inconsapevolezza non meno grave. Combattiamo il terrorismo in Irak, Libia, Afghanistan e Siria, ma dimentichiamo che i suoi mandanti e i suoi ispiratori sono da tempo presenti nelle nostre città. Soprattutto in quelle moschee italiane ed europee trasformate nei terminali d'importanti quanto pericolosi flussi di denaro. Flussi provenienti dall'Arabia Saudita, filiera di un islam wahhabita assai vicino a quello predicato dall'Isis, o dalla Turchia e dal Qatar, due paesi trasformatisi nei finanziatori e nei protettori di quella Fratellanza islamica sempre pronta a proclamare la superiorità della sharia, la legge del Corano, sulle leggi dello Stato. Da questo punto di vista è intollerabile la latitanza di un'Europa che invece di pretendere da quelle nazioni una rottura netta con l'islam radicale continua ad accettarne i ricatti. Caso esemplare, ancora una volta la Turchia di Erdogan. Dopo averci sommerso nel 2015 con uno tsunami di un milione e passa di migranti e avere incassato sei miliardi per arrestarlo, continua a tenerci sotto scacco minacciando di riaprire i rubinetti dell'esodo o, come già detto, di rispedirci i terroristi dell'Isis.

Ad amplificare questa pericolosa tolleranza contribuiscono le politiche di quelle sinistre sempre pronte nel nome del «politicamente corretto» e della cosiddetta lotta all'islamofobia a ostacolare l'adeguata sorveglianza e, ove necessario, la repressione e la messa fuori legge di quei gruppi islamisti che pretendono di venire accolti in Europa, ma rifiutano di rispettare gli ordinamenti delle nazioni di cui sono ospiti. Il rifiuto delle leggi dello Stato va, invece, punita e stroncata sul nascere perché equivale al rifiuto della convivenza. Come tale rappresenta il primo passo verso quella giustificazione dell'illegalità e della violenza contro i cosiddetti «infedeli» professata dall'islam radicale. Altrettanto pericolosi sono i tentativi d'imporci ius culturae e ius soli o tutte quelle ideologie dell'accoglienza «senza limiti», destinate ad allargare la consistenza di comunità islamiche già difficilmente integrabili nel contesto culturale e sociale europeo. Un lassismo che, come dimostrato dalla mancata integrazione di seconde e terze generazioni, finisce con l'avvicinare molti giovani musulmani al radicalismo islamista. Per questo prima di affrontare l'utopica lotta al cambiamento climatico sarebbe meglio riflettere su sistemi di controllo dei flussi migratori capaci di garantire l'arrivo di comunità, come quelle sudamericane di fede cristiana, più agevolmente integrabili nel contesto sociale europeo.

Anche perché sarebbe tragicamente inutile lottare contro i mulini a vento del cambiamento climatico per poi ritrovarci schiavi di un'ideologia islamista pronto dettare legge a casa nostra.

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