Cronache

"Io, generale vi dico: non trasformate l'esercito in una ong"

Il generale Li Gobbi: "Non giova una certa propaganda volta a presentare i militari come boy scout, che distribuiscono aiuti e costruiscono ospedali da campo"

"Io, generale vi dico: non trasformate l'esercito in una ong"

Il generale Antonio Li Gobbi è stato ufficiale del genio guastatori partecipando a missioni Onu in Siria e Israele e Nato in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di Isaf a Kabul. Tra i vari altri incarichi si ricorda quello di Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (Coi) e, in ambito Nato, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di Shape (Supreme Headquarters Allied Powers Europe) e direttore delle operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della Nato a Bruxelles. Un curriculum militare di tutto rispetto per un “figlio d’arte” come lui. Il generale infatti fa parte di una famiglia di militari di carriera ed il padre è stato pluridecorato annoverando anche la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

In una recente intervista a La Verità, il generale, oggi analista strategico per diverse testate, si scaglia, contro l’atteggiamento tutto italiano di vedere le Forze armate "come Ong".

Il generale in un passaggio parla chiaro: “Non giova una certa propaganda volta a presentare i militari come boy scout, che distribuiscono aiuti e costruiscono ospedali da campo. Certo, si fa anche questo. Ma non si va in Afghanistan solo per questo”. Il riferimento è alla rappresentazione dell’Esercito come se fosse un corpo di Protezione Civile a cui abbiamo assistito in occasione dello scorso 4 novembre, festa dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate. In quell’occasione la locandina scelta dal Ministero della Difesa nell’anno del centenario della fine della Grande Guerra, di cui si ricorda la fine vittoriosa proprio in quel giorno, è sembrata quella di una Ong proprio come ha indicato il generale Li Gobbi.

Un soldato che aiuta un’anziana, un carabiniere che abbraccia un ragazzo, un elicottero impiegato in un’azione di soccorso col verricello e l’immancabile marinaio che salva un immigrato in mare.

Se questa deve essere la narrazione delle Forze armate in questo Paese tanto vale che le si smilitarizzi. Così sembra pensarla anche il generale che altrettanto provocatoriamente aggiunge “Se presenti i militari come Ong, mi chiedo: se devono fare lo stesso lavoro, perché i primi sono armati e le seconde no?”.

Già. Le armi. In questo Paese non si può parlare seriamente di armamenti sebbene essi siano l’unico strumento di deterrenza per una nazione che intende essere protagonista sul piano mondiale come l’Italia. Si aprono dibattiti sulle armi solo in chiave polemica e destrutturante: l’esempio di quanto è accaduto e sta accadendo per l’F-35 è lì a dimostrarlo una volta di più.

La politica in questo Paese, alle cui dipendenze i militari fanno capo e soventemente chinano il capo, non è in grado di esprimere una visione prospettica unitaria e organica di pianificazione militare: come anche detto dal generale Li Gobbi “In tutti i Paesi democratici c'è un' alternanza tra partiti, ma gli interessi strategici nazionali restano quelli. Da noi non sempre”. Da noi, oltre a pensare a disfare quello che il governo precedente ha fatto anche di buono, si prende la Difesa come un serbatoio di risorse finanziarie a cui attingere, come a una vacca “magra” da mungere per sovvenzionare riforme o tappare i buchi del bilancio statale.

Così, oltre a vedere cancellati programmi importanti come il Camm-Er, e ritardati, decurtati, modificati altri ancora, il famoso obiettivo del 2% del Pil destinato alla Difesa anziché avvicinarsi si allontana, nonostante, come ricorda anche il generale sia un obbligo sottoscritto con la Nato.

Se poi andiamo a vedere come vengono impiegate le risorse finanziarie che al momento si aggirano all’1% del Pil, ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli. Il bilancio complessivo per la Difesa nel 2019 è sì aumentato in senso assoluto, passando a 21.432.2 milioni di euro, con un aumento di 463,3 milioni (+ 2,2%) sui 20.968,9 milioni del 2018, ma è un bilancio “drogato”. In primis la “funzione sicurezza del territorio”, cioè quella parte del bilancio destinata ai Carabinieri, è aumentata del 4,4% pari a +356 milioni di euro, secondariamente sono aumentate, nella delicata voce “Funzione Difesa” ovvero al parte prettamente destinata alle FFAA, le spese di esercizio tra le cui voci quella preponderante è quella riservata al personale: quasi +3% in un anno. Al contrario la parte più fondamentale e strategica del bilancio della Difesa, quella destinata all’innovazione, ha visto un decrescita che sembra un vero e proprio crollo che ci fa tornare indietro al 2006: i fondi disponibili quest’anno si fermano a 1.869,9 milioni, contro i 2.305,5 dello scorso anno. La variazione negativa è di meno 435,6 milioni pari a -18,9%. In particolare al settore “Ammodernamento e Rinnovamento” vanno 1.821,5 milioni di euro a fronte dei 2.256 dell’anno scorso, cioè quasi il 20% in meno.

E la riforma Di Paola? Sembra essere sparita. Li Gobbi infatti ricorda che le nostre Forze Armate annoverano ancora il problema dell’invecchiamento del personale in servizio. “L' età media dei volontari in servizio permanente nell' esercito è 37 anni, il 25% è sopra i 40 anni. Tra 10 anni, se non si interviene, saranno il 75%. Un esercito anagraficamente vecchio!” sono state le parole del generale.

Come si potrebbe porre quindi rimedio? Arruolando personale con l’idea di non assumerlo in servizio permanente effettivo ma a ferma prefissata in modo da dare una rotazione “anagrafica” ai reparti. Più facile a dirsi che a farsi in un Paese che vede ancora le Forze armate come a un contenitore dove parcheggiare amici e conoscenti e soprattutto un calmiere per la disoccupazione, in particolare del meridione.

Il generale soprattutto in questo caso parla oltremodo chiaro e noi siamo totalmente concordi con lui. “Non si può trasporre il modello occupazionale civile nel mondo militare, con assaltatori di 60 anni! Sempre ammesso che si voglia garantire l'operatività delle forze armate”. Per fare questo occorre recuperare la specificità della missione militare “cosa oggi particolarmente urgente, stante il processo di smantellamento di questa particolarità etica prima di tutto, avviato già da qualche anno, ma che recentemente sembra aver avuto un'accelerazione”.

Già. L’etica. Messa ulteriormente in crisi dalle riforme di questo Governo che vorrebbe, ad esempio, finanziare l’acqua pubblica con le spese già esigue per la Difesa e che ha introdotto i sindacati nelle Forze Armate per “merito” del Ministro Trenta, facendo così sparire l’ultimo barlume di disciplina e gerarchia che ancora vi era rimasto. Del resto il Ministro è stato oltremodo chiaro: per le Forze Armate vede un principio “dual use” ovvero l’attribuzione di compiti non solo militari ma di protezione civile “a supporto della collettività” in modo sistemico. Come a dire: “Prendete le ruspe e andate a levare l’immondizia da Roma” o “eccovi i soldi per le asfaltatrici e andate a tappare le buche della Capitale”.

Un principio, per la verità, non nuovo: già a partire dai Vespri Siciliani, l’operazione di controllo del territorio in chiave antimafia avvenuta in Sicilia negli anni Novanta, l’Esercito è stato usato per compiti che non sono propriamente suoi, e questa attitudine è diventata un’abitudine con l’operazione Strade Sicure, che, per inciso, è quella che vede il maggior numero di personale militare impiegato in un compito per il quale, lo ribadiamo, non è stato addestrato se non in extremis, perché non previsto dall’ordinamento dell’Esercito.

Intendiamoci. Le Forze Armate non sono una Cenerentola che subisce passivamente la matrigna della politica, ma ha le sue colpe in questo meccanismo perverso: quella principale, a nostro giudizio, è quella di accondiscendere silenziosamente ai diktat politici di vario colore per cercare di raggranellare qualche soldo in più da mettere nello striminzito bilancio. “Hanno fatto giuramento di fedeltà” si dirà, ma alzare la voce quando serve non significa tradire questo giuramento, non è ammutinamento parlare chiaro quando si portano le stellette e riferire di una situazione disastrosa in cui gli aerei faticano a volare ed i carri a girare per mancanza di carburante, non è sedizione affermare che alcuni reparti non vanno chiusi ma modificati e migliorati per far fronte alle nuove sfide imposte dalle crisi internazionali che ci sono sempre più vicine anche geograficamente.

Purtroppo però, in questo Paese, si preferisce chinare il capo finché si indossa una divisa, salvo poi levarsi più di un sassolino dalle scarpe quando si è in congedo, anche se, finalmente, ci sono segnali di “sveglia” come quello recente del generale Riccò, che a Viterbo ha abbandonato la cerimonia del 25 aprile perché troppo politicizzata e strumentalizzata dall’Anpi.

Speriamo che Riccò abbia rotto un tabù e che provochi una reazione a catena di “generali e ammiragli che parlano” senza aspettare la pensione.

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