Treno deragliato a Milano

Io, viaggiatore che ho smesso di prendere treni

Io, viaggiatore che ho smesso di prendere treni

Quanto li ho amati, i treni. Da bambino li amavo perché mio nonno era un ferroviere, sebbene a scartamento ridotto (Ferrovie Calabro-Lucane). Conservo ancora il suo fischietto. Da ragazzo li amavo perché mi permettevano di andare ai concerti (Joe Cocker! Renato Zero! Dalla-De Gregori!) e in discoteca con poca spesa. Lavoravo sulla costa romagnola e feci in tempo a salire sulle carrozze centoporte, già scomparse dalle linee principali ma ancora in uso su tratte minori come la Ravenna-Rimini: oggi a vederle su internet sembrano il treno del Far West. Da automunito ho continuato ad amarli perché mi consentivano di leggere gli adorati libri e più il viaggio era lungo e più a fondo mi immergevo in saggi e romanzi. Da critico gastronomico li ho amati perché mi permettevano di cenare a Bologna o a Milano e di rientrare a Parma senza rischiare la vita o la patente per colpa delle libagioni. In pochi anni è cambiato tutto, e non tanto perché nel frattempo sono morti Lucio Dalla, mio nonno e Joe Cocker. E nemmeno perché si verificano tragedie come quella di Pioltello. L'ho sempre saputo che perfino in treno si può morire, da quando in casa sentii parlare del disastro di Balvano, il più grave incidente della nostra storia ferroviaria, oltre 500 morti in una galleria al confine tra Basilicata e Campania. D'accordo, correva l'anno 1944, era quasi finita la guerra e c'erano ancora le locomotive a vapore, ma anche quel giorno lontano, come tante volte in seguito, si incrociarono errori umani, sciatteria, spilorceria e sfortuna.

In pochi anni è cambiato tutto perché le ferrovie italiane sono diventate ostili al viaggiatore italiano. Oggi le stazioni sono le teste di ponte dell'invasione. Per capire come viaggia una persona mi basta conoscere le sue idee sull'immigrazione: se prende il fenomeno sottogamba di sicuro non viaggia in treno, o al massimo viaggia in Alta Velocità (che quasi non è treno, che quasi assomiglia al viaggiare in aereo). In pochi anni anzi in pochissimi è divenuto sconsigliabile (altamente sconsigliabile se sei una donna) uscire dalle stazioni di Parma o di Padova dopo l'imbrunire. In pochi anni anzi in pochissimi il piazzale della Stazione Centrale è diventato un bivacco africano. Sui regionali in certi orari rischi di essere l'unico autoctono dell'intero vagone e sono gli stessi treni dove il controllore, presenza rassicurante, non lo vedi mai, o perché ha paura delle reazioni degli stranieri senza biglietto o perché l'azienda gli ha ordinato di non andarsi a cercare rogne. Non necessariamente a notte fonda: era semplicemente sera quando, lo scorso ottobre, sul regionale Venezia-Bassano del Grappa i passeggeri veneti sono stati sequestrati, umiliati, sputacchiati, insultati e minacciati per un'ora intera da una banda di giovani arabi al grido di «Questo treno è nostro!». E dovrei ancora amare dei treni così? Sentimentale va bene, scemo no. Siccome «lo Stato non c'è più», come dice il giudice Mascolo, ho deciso di abbandonare l'ormai odioso trasporto statale per buttarmi sul trasporto privato, comprando una Fiat (il sentimentalismo ha solo cambiato oggetto). In verità il declino della manutenzione pubblica continua a perseguitarmi: poche settimane fa, proprio nella pianura lombarda da cui provenivano i morti di Pioltello, nel bel mezzo di una strada dritta e larga come un'autostrada ho preso una buca che non so come sono qui a raccontarla.

Ma almeno quando entro in un autogrill sento parlare la mia lingua che amo tanto.

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