Cronache

I centri per l'impiego di Renzi? A Lecce 2mila domande, zero assunti

Il sondaggio campione realizzato da "Salento Rinasce": il 100% degli intervistati dichiara di non essere mai stato chiamato dal centro per l'impiego di Lecce

I centri per l'impiego di Renzi? A Lecce 2mila domande, zero assunti

La rivoluzione la promise Matteo Renzi nel lontano ottobre del 2013. Quando pubblicò la mozione per le primarie alla segreteria del Pd (che da lì a qualche mese lo avrebbe portato direttamente a Palazzo Chigi), disse chiaramente che i centri per l'impiego (Cpi) andavano "cambiati" perché "qualcosa vorrà pur dire se in Italia danno lavoro a 3 utenti su 100 contro quelli svedesi che arrivano a 41 su 100". Da allora la legislazione in merito in effetti è cambiata. Ma in peggio. Lasciando gli ex uffici di ricollocamento in una sorta di limbo indefinito.

Per chi avesse avuto la fortuna di non metterci mai piede, i Centri per l'impiego (Cpi) sono strutture pubbliche che (in teoria) dovrebbero favorire “l'incontro tra domanda e offerta di lavoro”. Un disoccupato (o chi vuol cambiare lavoro) va all’ufficio territoriale, presenta il proprio curriculum e poi aspetta. Se il sistema funziona, prima o poi dovrebbe arrivare un’offerta di impiego. Ma non sempre accade. Il caso limite è rappresentato da Lecce: nei giorni scorsi l’associazione “Salento Rinasce” ha realizzato e reso noto un sondaggio che fa riflettere (leggi): su 2mila intervistati, residenti in provincia e iscritti al Cpi di Lecce, nessuno di loro è mai stato chiamato per lavoro. Nessuno: 100% di insuccesso.

Il sondaggio non ha tutti i crismi della scientificità (anche se il numero degli intervistati è elevato). Ma le testimonianze inviate dagli stessi lavoratori ai responsabili dell’associazione confermano, in generale, quanto emerso dalle statistiche. E non sarà un caso se il 90% di loro non ha fiducia nel funzionamento del Cpi. “È necessario che una struttura così imponente e con tante risorse a disposizione dia una risposta concreta a chi cerca un’occupazione - attacca Cristian Benvenuto, dirigente di Fratelli d’Italia - Tranne per il progetto Garanzia Giovani e per qualche corso di formazione, di fatto è un'istituzione morta”.

E pensare che i centri per l’impiego dovevano essere il perno delle “politiche attive” del “Jobs Act” voluto da Matteo Renzi. Fino al 2015 gli uffici erano gestiti e coordinati dalle Province, poi quando la riforma Delrio le “abolì” la palla passò alle Regioni. L’obiettivo del segretario del Pd era quello di trasferire la competenza esclusiva in mano allo Stato, centralizzando i servizi per l’impiego per garantire maggiore capacità operativa nel traghettare i disoccupati verso un nuovo lavoro. L’architettura però nacque con un vizio di fondo: il governo subordinò il tutto all’approvazione del Referendum costituzionale e così con il voto del 4 dicembre 2016 insieme alle ambizioni riformiste di Renzi crollò anche il sistema pensato per la riforma del lavoro. La competenza allora rimase concorrente tra Stato e Regioni, mentre i costi furono assegnati alle Province.

Il risultato è noto: manca una governance capace di gestire l’intero sistema. La debacle referendaria rese peraltro inutile (su questo ambito) anche la creazione dell’Anpal, l’Agenzia nazionale nata col compito di assumere un ruolo di “coordinamento” e di standardizzare le prestazioni a dei livelli minimi scelti dal ministero. Oggi l’Anpal fissa gli standard ma non può intervenire operativamente sui singoli Centri per l’Impiego che dipendono comunque dalle Regioni.

Il caos emerge chiaramente in una nota dell’incontro del 21 marzo 2017 tra Ministero del Lavoro, Anci e Unione delle Province d’Italia. “La riforma complessiva in tal senso avviata con il “Jobs act” - si legge - ha lasciato tuttavia un’indeterminatezza di fondo riguardo al modello di governance che si è venuto a creare in questo settore che sta comportando seri problemi di funzionalità ed efficienza dei Centri per l’impiego”. Nel 2015 venne firmato un accordo tra Governo e Regioni per avviare una fase transitoria fino al 2016: lo Stato mise sul piatto 280 milioni in due anni, le Regioni 70. Soldi che non sono bastati a coprire un dissesto che non è solo funzionale, ma anche economico. L’esito referendario peggiorò la situazione e il governo dovette mettere una pezza, rinnovando l’accordo per un’ulteriore fase transitoria per tutto il 2017 (220 milioni di euro). Solo l’ultima legge di Bilancio ha posto fine al limbo, trasferendo tutti i dipendenti a carico delle Regioni a statuto ordinario e assegnando allo scopo 220 milioni di euro.

Il futuro resta ancora un’incognita. Di certo c’è che gli oltre 500 Centri per l’impiego contano circa 8mila dipendenti (5.500 dipendenti, gli altri precari), non tutti qualificati e che non sempre sono in grado, come nel caso di Lecce, di erogare i servizi richiesti.

A dirlo è lo stessa nota congiunta di Comuni e Province: “Sul nostro Paese - si legge - pesa e continua a pesare un sistema di servizi per l’impiego del tutto inadeguato rispetto alle esigenze del mercato del lavoro e molto lontano dagli standard europei”.

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