Cronache

Le lettere delle donne al Duce: "Chiedo la grazia di un lavoro"

Da un archivio di Brescia escono centinaia di suppliche a Mussolini di madri di famiglia che chiedono aiuto per un lavoro: inizia l'emancipazione femminile

Le lettere delle donne al Duce: "Chiedo la grazia di un lavoro"

Il lavoro della donna, sentenzia Benito Mussolini in un articolo apparso su Il Popolo d'Italia nel 1934, «ove non è diretto impedimento, distrae dalla generazione, fomenta un'indipendenza e conseguenti mode fisiche e morali contrarie al parto». Il titolo dell'articolo, Macchina e donna, è di per sé un programma. Esso infatti indica una polarità che bene esprime l'incompatibilità nell'ideologia fascista della sfera produttiva con la sfera familiare, del mondo del lavoro con il regno dei sentimenti.

Che siano piccole, giovani o donne, poco importa. La preoccupazione del fascismo è sempre la stessa: «Formare e creare la futura madre delle nuove generazioni, perfetta come donna di casa non solo nelle sue virtù materiali e casalinghe, ma anche nello spirito profondamente fascista». La donna a misura di regime, quindi, non deve avere un'occupazione, perché il lavoro «distoglie e disgusta dalle occupazioni famigliari, inasprisce la tendenza ai godimenti immediati, porta a considerare la gravidanza come il più grave dei danni, spinge il capofamiglia alla riduzione del proprio lavoro, attenua nelle famiglie i vincoli affettivi e morali, porta i figli e le figlie a una precoce indipendenza ricca di pericoli e di danni, porta a mutamenti dell'istinto sessuale e favorisce pericolose tendenze psichiche degli intersessuali e di chi vi inclina e forse anche di chi non vi inclinerebbe».

Con la «grande crisi» del '29 l'impianto ideologico del fascismo deve registrare significative correzioni. È quanto si evince dalle centinaia di lettere scritte al Duce da donne italiane tra il 1935 e il 1938, suppliche conservate presso il fondo archivistico Ufficio provinciale di collocamento, depositato alla Camera di commercio di Brescia e sapientemente inventariato dall'équipe di Marina Michela Tonelli in collaborazione con Fabrizia Rossetti, un lavoro che il Giornale è in grado di anticipare in questa pagina.

Si tratta di scriventi che appieno rispecchiano il cliché della donna-madre, patriottica, rurale, florida, forte, tranquilla e prolifica, tanto cara al fascismo. Sono donne, come rimarca orgogliosa la scrivente Angelina, che sostengono l'«opera di prolificazione» voluta dal fascismo. Quasi tutte, infatti, hanno mediamente dai sei ai tredici figli, ma tutte, di fronte alla dilagante disoccupazione, non si tirano indietro nel cercare un sostegno economico alla famiglia lavorando. «Eccellenza Benito Mussolini - scrive al Duce Paolina nel 1937 - c'è un proverbio che dice Quando il lupo ha fame, esce dalla sua foresta ed io orfana di guerra prendo questo proverbio per domandare un'occupazione».

A «uscire dalla foresta» sarà una nutrita schiera di centinaia di donne, come ci testimoniano queste lettere. Un'«uscita» giustificata dallo stesso regime che fa saltare l'impalcatura retorica - che consegna la donna al potere del maschio e a una funzione meramente procreativa - allorquando ha la necessità di sopperire al vuoto creatosi nel mercato del lavoro a seguito dell'avventura coloniale in Etiopia, poi della guerra civile spagnola, quando cioè imbocca senza più remore la strada di una vera e propria economia di guerra.

«Eccellenza», si appella Pierina nel 1936, «la mia famiglia è povera e bisognosa, siamo in nove fratelli, ed io che sono la terza ed ò 16 anni, desidererei tanto aiutare i miei genitori, ma per quanto faccia non riesco mai ad entrare come vorrei in un qualche stabilimento come operaia. So che Ella è tanto buono e caritatevole e fidente mi rivolgo a Lei affinché mi aiuti». Giuseppa dal canto suo si rivolge al Duce «perché il bisogno è molto e i figli sono tanti e non posso dare pane abbastanza essendo i miei figli maggiori ed il marito disoccupati, di figli ne ho dieci viventi, ma sono madre di tredici e due aborti ma a me questo non importa perché sono ancora in ottima salute che me ne augurerei altri se avrei la soddisfazione quando cercano pane averlo e averne abastanza, ànno bisogno di coprirli del freddo e sasiarli col pane, anchio che sono non ancora tre mesi che ho avuto l'ultimo maschio e che ò la fortuna di poterlo allatare ma non ho vitto sufficiente. Il fornaio non mi da il pane se non si paga giornalmente avendo da dare 600 lire e come si fa. Io mi rivolgo a lei perchè sono certa di non essere in rifiuto sapendo che ho adempiuto ai voleri del Duce nostro che tanto ama le madri di numerosa famiglia».

Le donne, relegate a suon di decreti tra le mura domestiche, si sobbarcano in misura crescente negli anni il peso delle carenze di beni di prima necessità, carenze che col tempo si fanno drammatiche esponendo le famiglie, e quindi innanzitutto le donne, a privazioni e sacrifici umilianti. «Eccellenza Benito Mussolini, so che lei mi ama e mi esaudirà esordisce sicura Giovanna nell'anno XV dell'Era Fascista viene l'inverno e siamo qui nudi e crudi da capo a piedi senza neppure un soldo e allora come dobbiamo fare nessuno che pensa per niente, in questi paesi non cè nessun mezzo per guadagnarsi il pane siamo al punto di morire di fame. La raccolta è stata molto scarsa e appena appena se abbiamo da mangiare un mese, e dopo cosa dobbiamo fare. Il mio povero babbo à dato la vita alla Patria, à dato la Polizza alla Patria e ora i suoi otto figli che stanno per morire di fame. E la mia povera mamma che va porta per porta a cercare un pezzo di pane per darmi da mangiare. Lei bisogna pensare qualche cosa. Deve fare il possibile per farmi il posto in qualche impiego perché son grande e ò quattrodici anni e ò fatto la quinta classe e posso essere capace di fare qualche cosa. Dunque spero che mi aiuterà, pregherò sempre il Signore perchè vivi ancora lunghi anni. Un bacio affettuoso», conclude Giovanna, che si dichiara «sua figlia Italiana».

Tanto più si aggrava la mancanza di ogni genere di consumo, tanto più tocca alla donna far quadrare i bilanci familiari, industriandosi in ogni modo per assicurare ai figli un pasto e il necessario per vivere. Il prototipo della donna solo moglie e madre subisce i primi energici scossoni. Per il momento comunque il castello retorico costruito dal regime riesce a reggere. Le suppliche femminili di ausilio rivolte al Duce non fanno che confermare la sua immagine di Padre della Patria sempre pronto a soccorrere i figli in difficoltà. Toccherà all'imminente conflitto mondiale aprire un ben più largo varco nello storico recinto che ha tenuto le donne escluse dal mondo del lavoro. La massiccia mobilitazione industriale e agricola imposta dall'economia di guerra porterà infatti le donne a riempire i vuoti lasciati in officine e nei campi dai loro uomini chiamati alle armi. La retorica del regime non viene aggiornata. Spetta alla realtà cominciare a smentirla. Il fascismo si limita a fare di necessità virtù. Prima fa indossare alle donne la tuta di lavoro. Presto, con l'istituzione nella primavera del 1944 del Servizio Ausiliario Femminile, farà loro vestire la divisa militare. La parificazione uomo-donna è ancora di là da venire. Compie però passi importanti.

Elena Pala

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