Cronache

Licenziata per un post su Facebook: per la Cassazione è "giusta causa"

La donna ora non verrà nè risarcita nè reintegrata nel suo posto di lavoro

Licenziata per un post su Facebook: per la Cassazione è "giusta causa"

A Forlì, la dipendente di un'azienda di elettronica aveva pubblicato su Facebook un post in cui si lamentava del suo posto di lavoro e per questo era stata licenziata. Ora la Corte di Cassazione ha stabilito che la ditta aveva ragione.

La donna, 43 anni, la mattina del 9 maggio 2012, aveva condiviso sul social network un messaggio che descriveva in modo dettagliato le mancanze dell'azienda e si lamentava per il continuo cambio di incarichi che le venivano assegnati. Non solo. Secondo quanto riporta Tgcom24, la dipendente avrebbe rivolto alla società anche diversi insulti:"Mi sono rotta di questo posto di m...".

Uno sfogo in un momento di rabbia, che però le ha procurato conseguenze di non poco conto. Il post infatti è stato visto anche dal rappresentante legale dell'azienda dove la donnna lavorava, che era sua "amico" su Facebook. Il datore di lavoro della 43enne è stata informata della cosa e due giorni dopo ha recapitato alla sua dipendente una lettera di contestazione. Inevitabile, alla fine del mese, il licenziamento della donna.

La lavoratrice, successivamente, aveva cancellato il post e deciso di impugnare l'atto, per fare ricorso. Nel 2014, però, il tribunale di Forlì definisce legittima la decisione del titolare dell'impresa. Non contenta, la 43enne si rivolge anche alla Corte d'Appello di Bologna che, nuovamente, dà ragione all'azienda, poiché "è venuto meno, in buona sostanza, il vincolo fiduciario che deve esistere tra azienda e dipendente".

La donna non si arrende e fa nuovamente ricorso in Cassazione. I giudici ermellini, il 27 aprile scorso, hanno emesso la sentenza definitiva, riconoscendo la legittimità del licenziamento. Inoltre, "la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone". Di conseguenza, essendo validi gli estremi per il reato di diffamazione, viene ritenuta corretta la decisione del datore di lavoro, che ha attuato un licenziamento "per giusta causa".

La donna, quindi, non verrà risarcita nè reintegrata.

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