Andrea Vitali, Susanna Tamaro, Andrea Bajani, Marta Morazzoni, Emanuele Trevi… Sono solo alcuni dei suoi fan italiani più appassionati. Perché lo scrittore islandese Jon Kalman Stefansson è quel che si dice un autore di culto come ce ne sono pochi. È il suo momento: aveva ipnotizzato i lettori l'anno scorso con Il cuore dell'uomo ; il suo ultimo romanzo, I pesci non hanno gambe (traduzione di Silvia Cosimini, Iperborea, pagg. 448, euro 19) è in traduzione in 20 paesi. La storia è quella di Ari, poeta-editore in fuga dall'Islanda dopo aver distrutto la sua vita familiare, e di sua nonna Margrét, confinata tra i pescatori misogini di un fiordo dell'est. Dove sta il fascino? Nella lingua, bellissima e incantata. Nel fuoco che arde dentro al concetto di Natura come noi continentali delle megacity abbiamo scordato. Nella grandezza che diventa mistero come raramente ormai accade nei romanzi nostrani.
I suoi romanzi dimostrano che tutto è connesso con la natura, sempre.
«Forse perché l'Islanda è quasi solo natura, con un palazzo e un po' di gente qua e là. La natura è ovunque e sentiamo con ferocia di farne parte, siamo radicati in lei da sempre. Ma lo dimentichiamo di continuo. Crediamo che il mondo sia diviso in due: Uomo e Natura. Ci siamo seduti al posto degli dei».
Anche la connessione con l'amore è ovunque, nei suoi romanzi.
«Perché ci pensiamo sempre e non riusciamo a scappare. Accendi la radio e qualcuno canta d'amore, alla tv c'è sempre un film sull'amore, sopra e sotto. Senza amore la vita è un deserto. Eppure la maggior parte di noi lo tratta in modo infantile: l'amore è un secondo, duro, a volte noioso, lavoro. Non un allegro motivetto».
Il protagonista di «I pesci non hanno gambe» è un poeta-editore, un uomo di cultura. Ma questo non gli garantisce una miglior visione del mondo.
«Ha smesso di scrivere. E soffre di sensi di colpa per questo. Ha tradito se stesso prima che la moglie e i figli. Questo è il tema principale del romanzo: perché tradiamo noi stessi? Perché battiamo in ritirata di fronte allo squallido esercito della quotidianità? Perché rifiutiamo di sentirci giovani per sempre? L'assuefazione ci intorpidisce il cuore e smettiamo di combattere per le arti, la cultura, la vita».
Com'è nata l'ambientazione?
«Volevo prima di tutto parlare di Keflavìk - un posto unico, chiamato il “posto più nero d'Islanda”, per via della lava, che è dappertutto - e della base americana stanziata lì. Ci ho vissuto la mia giovinezza e volevo rendere quell'atmosfera. Poi volevo parlare di come mai noi islandesi siamo come siamo: pescatori, sì, ma non solo…».
I pescatori hanno un ruolo chiave, comunque.
«L'Islanda è un'isola. Ovunque guardi c'è oceano. Il mare è il nostro sangue, non importa che tu sia pescatore o no. Potere, dimensioni, profondità, minaccia, pace, cambiamento, poesia e grande romanzo: il mare mi rende felice, terrorizzato, perduto e gigantesco nello stesso momento».
Innovazione contro nostalgia: un altro tema che le è caro.
«La modernità ci ha fatto perdere noi stessi. Ci ha cambiati troppo in fretta. Corriamo senza indizi sul traguardo finale. Stesso corpo, mente, sogni di cento anni fa e mondo completamente diverso. E ci meravigliamo che questo ci stressi. Tremiamo dallo stress, siamo pervasi di energie negative. Come potrei evitare l'argomento?».
Uno dei suoi antidoti alla frustrazione dell'uomo moderno è l'epica.
«Le saghe ci hanno sempre influenzato molto, in Islanda. Le abbiamo lette per 700 anni: anche se non ci pensiamo mai sono parte del nostro modo di pensare. Non so quanto mi abbiano influenzato, forse Knut Hamsun di più. Del resto il concetto di influenza è vago: spesso, sbagliando, lo confondiamo con l'affinità. In ogni caso, Knut Hamsun amava le saghe. Come le amava Hemingway, visto il suo stile. A me piace credere che la letteratura possa aiutare la gente a vivere. Che i libri non vadano letti, ma vissuti. Che gli autori debbano sempre scrivere come se ogni parola fosse l'ultima.
E dare tutto».