Cronache

L'infinito talento dell'umiltà

Lo svizzero incarna il genio che sa restare dentro le regole scardinandole col rispetto per se stesso, gli altri e lo sport

L'infinito talento dell'umiltà

L'esultanza racconta tutto: Roger Federer urla, poi alza le braccia al cielo, poi le butta giù, comincia a saltare e di nuovo alza le braccia e le ributta giù. Come se questo Australian Open fosse la prima vittoria della vita, anziché la numero 18 in un torneo del Grande slam, come se avesse vent'anni anziché 36, come se fosse il nuovo volto del tennis, anziché il suo Dio pagano.

L'esultanza spiega tutto perché racchiude il federerismo: sapere di essere il talento più grande della storia del tennis e continuare a coccolarlo, educarlo, gestirlo, allenarlo. Uno così è lo sportivo del millennio: il Novecento è stato del talento puro, un po' sregolato, un po' irrispettoso; Federer è l'opposto: l'ha regolato con l'umiltà, con quel rispetto verso se stesso, verso gli avversari e verso il suo sport che lo fa allenare ancora per vincere. Non avrebbe bisogno di niente, lui. Quanti sportivi nella storia possono essere paragonati a lui? Non si arriva a dieci e di questi solo uno è un tennista. Avrebbe potuto chiudere nel 2012, con l'ultimo Wimbledon, il settimo. Avrebbe potuto smettere in qualunque altro momento successivo: il mondo saprebbe di avere visto una leggenda immortale. Invece insiste, gioca perché «il tennis è la cosa più bella che c'è». Invece combatte perché sogna altre vittorie, tipo quella di ieri, e soprattutto sogna l'ottavo Wimbledon. Invece si allena, perché sa che il talento più grande di sempre di questo sport non è sufficiente.

È la differenza di Federer, questa. «La bellezza non è l'obiettivo degli sport di competizione, ma lo sport di alto livello è uno degli ambiti in cui la bellezza umana ha le maggiori probabilità di esprimersi», ha scritto David Foster Wallace in uno straordinario saggio sul campione svizzero. Federer incarna questa bellezza: estetica, morale, sportiva, culturale. Sono belli i suoi gesti, è bello il suo gioco. È uno di quei rari esempi di sovrapposizione totale tra un uomo e la disciplina che ha scelto per manifestarsi. Persino gli avversari, in questi vent'anni di carriera, hanno capito di trovarsi di fronte a un monumento che si muove: l'impegno nell'educazione del talento e nel suo non sperpero è ciò che loro - tutti - gli invidiano. Lo ammirano. Uno con un braccio così avrebbe potuto fare McEnroe: geniale e scostante, classe infinita e poca testa. Roger è il contrario. È il genio con il quale i recinti si allargano e si modificano, ma non vengono superati, perché lui sta dentro le regole. E dall'interno di quelle regole le ha scardinate: ha dimostrato che in un'era di picchiatori, di giocatori da colpi a 200 all'ora e basta, c'era spazio anche per uno come lui. Anzi, che ha dimostrato che se il tennis trova uno come lui, ha trovato ciò che da solo può tenere al riparo l'eleganza dalle bordate dei bombaroli. Il tennis l'ha ringraziato e lo ringrazia ancora oggi con una manifestazione di amore globale che non ha uguali in nessun altro. Roger Federer è l'unico sportivo che abbatte i confini per essere transnazionale. Universale. Figlio e padre dello sport.

Nessuno immaginava che potesse fare ciò che ha fatto a Melbourne, tranne Rafa Nadal che l'ha spesso battuto, ma che ogni volta ha capito di trovarsi di fronte a ciò che anche lui avrebbe voluto essere. Il talento umile è stata la strada. La testa è il luogo dove nascono le vittorie. Il braccio è lo strumento. E ieri il suo braccio sembrava fluttuare nell'aria australiana: servizio dritto, rovescio, volée, smash. Un passo dentro al campo, come una metafora di tutto. Di controbalzo, spesso, per anticipare la vita e per giocarsela con quello che ha, con quello che è: la classe che si fa uomo.

Giuseppe De Bellis

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