Cronache

L'uomo che sussurrava alle Conigliette: addio al "Playboy" che rese chic il sesso

Olycom
Olycom

D a vent'anni a questa parte, ogni qualvolta Hugh Hefner, il mitico fondatore di Playboy morto ieri a novantun anni, festeggiava gli anniversari di una terza età longeva, i settanta, poi i settantacinque e gli ottanta, quest'ultimi in una mega-festa romana, si veniva seppelliti da una curiosa contraddizione. Da un lato la pacchianeria: un vecchio in vestaglia color salmone che brindava a champagne con bellissime sventole nude sul bordo di una piscina a forma di cozza. Dall'altro la sottolineatura del peso giornalistico e culturale a lungo esercitato dalla sua rivista: articoli di Norman Mailer, Vladimir Nabokov, Capote e Kerouac, grandi fotografi, interviste con capi di Stato, attori, filosofi. Fondato nel 1953, con Marilyn Monroe come madrina del primo numero, Playboy è il giornale che in Vietnam ricordava ai marines la madre patria, la testata che accompagnerà e racconterà il cambiamento di una nazione, un'icona del made in Usa.

È anche questo a spiegare perché da noi Playboy non attecchì mai: negli anni Settanta la versione italiana ebbe infatti vita grama, sia che cercasse di dirigersi verso l'alto sotto Oreste Del Buono suo primo direttore, sia che in seguito cercasse il volo in quota sotto Paolo Mosca. In un Paese dove si leggeva, e si legge, poco, probabilmente gli scrittori americani costavano troppo in traduzione e quelli italiani non li pareggiavano in attrazione. Una qualità di contenuti resa possibile dall'alta tiratura in lingua inglese, diveniva un «vorrei ma non posso» e, insomma, non c'era partita.

È comunque possibile anche una spiegazione più psico-sociologica, se vogliamo. È che da noi il binomio sesso-cultura non funziona, non ha mai funzionato. L'impero di Hefner dura in buona salute da più di mezzo secolo, anche se la rivista è ormai la lussuosa ruota di scorta di un sistema multimediale, video, film, siti internet, merchandising... Da noi Playboy non è mai riuscito ad andare al di là del marchio e, passato un primo momento di sudditanza, quando eravamo poveri, ma belli e per di più sconfitti, fu proprio il suo aspetto grottesco a decretarne la non esportabilità: le pin up, le playmate, i grembiulini, le crestine e le tette da esposizione... Roba da bambini mai cresciuti, da americani, appunto. In fondo l'Ars Amandi l'aveva scritta Ovidio, mica Guy Talese, e fra Settecento, Ottocento e Novecento la dolcezza del vivere gli anglosassoni erano venuti a cercarla in Italia... Cosa volevano e/o potevano insegnarci? Resta memorabile la risposta di quell'aristocratico romano a un figlio dei fiori americano degli anni Settanta: «Quando voi stavate ancora sugli alberi e vi tingevate la faccia, noi eravamo già froci».

Se si presta inoltre un occhio non disattento alle date, si vedrà anche che per quanto concerne la nostra moderna educazione erotico-sentimentale, si andò allora molto in fretta. Nel 1958, quando Playboy usciva ormai da un lustro, a Roma si chiuse un ristorante, il Rugantino, perché a una festa privata la ballerina turca Aïché Nana fece lo spogliarello. Tempo però una decina d'anni e Alberto Moravia scrisse Io e lui, il famoso dialogo del... Si passò insomma da un eccesso all'altro, dal caso Braibanti alla legge sul divorzio e quello che prima era visto come una liberalizzazione dei costumi, subito dopo diveniva un atto d'accusa al maschio stupratore. Fra erotismo, arte e pornografia, il nudo non trovava insomma da noi la linea di confine in cui posizionarsi, quella che permetteva di guardare al sesso senza sensi di colpa o giustificazioni intellettuali. E inoltre c'era anche l'idea della mercificazione del corpo femminile, del «commercio della carne», della dignità calpestata. Che una donna italiana potesse identificarsi nelle conigliette di Playboy era considerato offensivo, che un uomo italiano potesse credere esportabile quel modello, era un non senso.

Certo, a un ragazzo di oggi, a cui il sesso, per quanto ne vede, in internet, al cinema, nella vita, esce dalle orecchie, tutto ciò sembrerà preistoria: l'idea che ci possa essere stato qualcuno portato a eccitarsi vedendo una donna nuda su un rotocalco, gli deve sembrare, almeno qui in Occidente, surreale. Del resto, l'evoluzione di Playboy negli Stati Uniti racconta proprio questo, la trasgressione fattasi poi norma e infine codificatasi in un mensile patinato e sempre più intellettuale, sia pure da star system, molte interviste a troppi attori e dove il nudo è ridotto a semplice condimento, proprio perché in giro ce n'è troppo e a prezzi stracciati. È rimasto il cilindro, ma la coniglietta ha smesso di apparire.

Non abita più qui.

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