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Con il M5S torna il partito dei Pm

Con il M5S torna il partito dei Pm

È un film già visto tante volte da quando, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, si iniziò a saldare la santa alleanza tra il Pci e un pezzo importante della magistratura. Quasi mezzo secolo dopo non è cambiato nulla, come fossimo caduti in un gigantesco loop temporale nel quale la porta girevole che separa le aule di giustizia dal Parlamento rimane perennemente aperta. Vasi comunicanti, al punto che i magistrati che negli anni si sono per così dire «prestati» alla politica non si contano più. Uno, Oscar Luigi Scalfaro, è arrivato fino al Quirinale, un altro, Pietro Grasso, oggi è presidente del Senato. Nel mezzo Antonio Di Pietro, il pm che ha fatto crollare la Prima Repubblica e che poi con la sua Italia dei valori ha di fatto sublimato la politicizzazione delle toghe. Si arriva ai giorni nostri e come in un surreale déjà vu ci si ritrova con i Cinque stelle che si propongono come il partito dei giudici 2.0. Gli ingredienti ci sono tutti, a partire da quel giustizialismo senza se e senza ma al quale si sono ormai allineati anche i più garantisti (i casi di Federica Guidi e Maurizio Lupi insegnano). Un'intransigenza alla quale si può però derogare solo quando sono loro ad essere coinvolti, tanto che Virginia Raggi ci ha già fatto sapere che non si dimetterà neanche se la dovessero rinviare a giudizio per le nomine in Campidoglio.

Ci sta, quindi, che il mondo grillino strizzi l'occhio alle toghe e che alcune di loro ammicchino, sperando in una candidatura e, chissà, magari pure in una poltrona da ministro. È il caso dell'ex presidente dell'Anm Piercamillo Davigo, che solo qualche giorno fa ha smentito l'ipotesi che potesse essere lui il candidato premier dei Cinque stelle. A differenza di Nino Di Matteo, il pm antimafia di Palermo che invece è pronto al grande passo ed è il Guardasigilli in pectore di un eventuale governo pentastellato.

Cinquant'anni dopo, dunque, il copione non cambia. Con l'aggravante, peraltro, che negli ultimi anni la magistratura ha avuto un ruolo decisivo nella vita politica del Paese, fino a contribuire alla caduta non solo di ministri ma di interi governi. In questo quadro, torna evidentemente a galla il solito dubbio sulla reale indipendenza e autonomia di chi ha delle idee politiche così solide da arrivare a candidarsi, perché è legittimo temere che quelle stesse convinzioni lo possano aver condizionato nell'esercizio delle sue funzioni di magistrato o possano comunque farlo quando tornerà a vestire la toga. La legge - caso unico in Europa - permette infatti di fare avanti e indietro dalle aule di giustizia al Parlamento senza alcun limite temporale o geografico. Il caso di scuola è quello di Michele Emiliano che, senza muoversi da Bari, da pm antimafia è diventato prima sindaco e poi governatore della Puglia. Solo pochi mesi fa, quando è diventato segretario regionale del Pd, il Csm ha deciso di aprire un procedimento disciplinare perché una cosa è far politica, altra militare in un partito. Una questione di forma.

D'altra parte della sostanza non sembra interessarsi nessuno.

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