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Di Maio-Tse Tung nazionalizza anche le banche. Come nei regimi

Di Maio-Tse Tung nazionalizza anche le banche. Come nei regimi

Non una, non due, non cento, ma almeno la metà di mille. Il piano quinquennale del ministro dello Sviluppo è nazionalizzare tutte le banche italiane. È la rivoluzione culturale ed economica di Luigino Di Mao Tse Tung, la via grillina alla finanza di Stato.

L'occasione arriva con l'affare Carige, quando, dovendo spiegare ai propri elettori questo colpo alla Renzi, ha raccattato una mezza scusa: «Noi non stiamo salvando una banca, la nazionalizziamo. Se lo Stato mette i soldi, quella banca diventa sua». Giorgetti conferma con una smorfia. Tria resta perplesso e azzarda: «Sarebbe meglio il mercato». Il ministro dello Sviluppo invece ci ha preso gusto. Perché fermarsi a una? Visto che ci stiamo facciamo fallire pure le altre, tanto con la recessione alle porte, l'aumento dell'Iva che balla sulla giugulare, le brutte notizie che arrivano dalla Germania e una spruzzata di malocchio ci scappa pure un '29. Ecco, a proposito di 1929, furono proprio le conseguenze della Grande Depressione a risvegliare lo spirito socialista di Mussolini. Benito, dopo quattro anni di crisi, mise la camicia nera alla Banca commerciale italiana, al Credito italiano e al Banco di Roma. Tutte e tre allora tecnicamente fallite, per carità, ma l'operazione servì anche a confermare il motto nazionalista: «Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato». È la nascita dell'Iri.

Adesso non è che stiamo qui a dire che Di Maio sia una sorta di fasciocomunista, per fortuna non ne ha la statura, al massimo lui e Di Battista guardano al Venezuela. Gli effetti non sono poi tanto diversi. Il grillismo di governo, con la complicità della Lega, riporta al centro della storia la vocazione di statalizzare tutto quello che si muove, come racconta Paolo Bracalini in queste stesse pagine: autostrade, compagnie aeree, reti telefoniche, fibra ottica, Borsa, televisioni e se ci scappa pure qualche cioccolatino tipo Pernigotti. Famelici. Uno potrebbe dire: e che cosa c'è di male? Si torna in pieno Novecento. Appunto. È il secolo di cui stiamo ancora pagando i debiti. Poi bisogna fidarsi dello Stato e di chi sulle poltrone dello Stato ci mette chiappe e cappello. Un tempo era il partito, oggi il Movimento. Ora i grillini sono convinti che gli uomini di partito siano malandrini, ladri e raccomandati, quelli del Movimento buoni, onesti e lì con pieno merito. Basta cambiare le parole e gli uomini di potere diventano angeli. Li chiami «cittadini» e sono tutti santi.

L'unica cosa che non merita di essere di Stato è la democrazia. A che serve il Parlamento? Il popolo è sovrano, direttamente, senza mediatori, basta che metta un like e governa per grazia di Dio e volontà della Casaleggio associati. La volontà generale, quella evocata da Rousseau. La volontà generale, che va interpretata, perché è qualcosa di più della banale maggioranza assoluta. È un quid che solo i filosofi e gli sciamani sanno leggere, come umori e desideri. È per questo che la democrazia diretta mica la puoi lasciare alle leggi e alla res publica. La democrazia è Rousseau. È una piattaforma che prende il posto del Parlamento. È un'azienda di famiglia.

Porca miseria, la democrazia è privata.

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