Cronache

Da martire a beato. Per Calabresi è tempo di rivalsa

Da martire a beato

Da martire a beato. Per Calabresi è tempo di rivalsa

Tempi maturi per avere in calendario un Beato Luigi Calabresi? Forse sì, e sarebbe una bella rivalsa: perché beato lui, il commissario Calabresi, in vita lo fu poco, soprattutto nei due anni e mezzo finali, linciato giorno per giorno, ucciso un po' per volta fin quando non lo ammazzarono davvero. Ieri, a quarantacinque anni dalla mattina di maggio cui Ovidio Bompressi gli sparò alle spalle e se ne andò brontolando «che schifo», Calabresi viene ricordato nel cortile della questura, e da anni non c'era una cerimonia così viva. E si torna a parlare della canonizzazione del commissario, uomo di fede profonda e di principi ormai desueti: se ne parlò già dieci anni fa, e il cardinale Tettamanzi stroncò il progetto, «potrebbe creare una serie di polemiche», scrisse a don Ennio Innocenti, che di Calabresi era stato il confessore. Ma don Innocenti non si è arreso e, ieri, ha annunciato che tornerà alla carica. Chissà se Scola, che proprio domani visiterà la questura, sarà più intrepido del suo predecessore.

La cerimonia, per la prima volta, si è tenuta all'interno della questura, davanti al busto che ricorda Calabresi: alzando gli occhi verso il quarto piano, c'è la finestra protetta da una bassa ringhiera da cui il 16 dicembre 1969 cadde Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico: e quella sera iniziò anche il calvario di Calabresi, ribattezzato «commissario Finestra» e accusato ingiustamente della morte di Pinelli, divenuta un «delitto di Stato» di cui ancora oggi, a quasi mezzo secolo, nessuno ha mai saputo indicare un possibile, plausibile movente.

La cerimonia si tiene qui per scelta del questore Marcello Cardona, che quando Calabresi venne assassinato aveva 16 anni: ma, una volta entrato in polizia, ha avuto modo di lavorare con la vecchia guardia, con gli uomini che avevano vissuto accanto al giovane commissario quegli anni terribili, come Achille Serra o come Vincenco Pagnozzi, che ieri in questura ha offerto un ricordo palpitante dell'amico assassinato. «Per noi - dice il questore Cardona - Gigi era un modello di uomo e di funzionario». E ha aggiunto una frase che non può che colpire allo stomaco: «La sua solitudine la sentiamo spesso anche noi oggi. Fortuna che i tempi sono cambiati».

Con direttori dei principali giornali milanesi, col sindaco Beppe Sala e col governatore Roberto Maroni, a ricordare l'anniversario c'erano anche familiari di Calabresi: la vedova Gemma, i figli Paolo e Mario, anche lui giornalista e oggi direttore di Repubblica. Per tutti i lunghi anni seguiti all'uccisione di Calabresi, la famiglia ha tenuto un comportamento esemplare, chiedendo verità e giustizia, ma senza livore né accanimento, anche quando i responsabili vennero individuati senza incertezze, arrestati, processati e condannati. «Nella fede ho trovato il perdono», ha detto di recente Gemma Calabresi. Ma dieci anni fa, quando le chiesero se avesse perdonato davvero gli assassini di suo marito, rispose secca: «Leonardo Marino ci ha chiesto perdono. Io l'ho perdonato. Nessun altro ci ha chiesto nulla». Né Ovidio Bompressi, l'esecutore materiale, né il leader di Lotta Continua Adriano Sofri, né tantomeno Giorgio Pietrostefani, forse il più colpevole di tutti, latitante da sempre in Francia, dove l'Italia non lo ha mai cercato davvero.

«La fama delle virtù sussiste a distanza di anni e l'emozione e la stima sono vive», ha detto don Innocenti tornando a chiedere la beatificazione di Calabresi. Che, rivela Innocenti, poteva salvarsi facilmente, perché padre Virginio Rotondi gli aveva trovato un posto tranquillo nella sua Roma, al Quirinale.

«Il mio posto è qui», rispose Calabresi.

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