Cronache

Nella chinatown romana tra pizzo ed estorsioni

Il quartiere Esquilino è da tempo in mano ai cinesi. La storia di un imprenditore che ha pagato il pizzo per anni

Nella chinatown romana tra pizzo ed estorsioni

Via Cairoli angolo Piazza Vittorio, quartiere Esquilino, Roma. Le insegne dei negozi sono quasi tutte in caratteri orientali, i ristoranti soprattutto cinesi o indiani. Per la strada i passanti sono perlopiù persone dai tratti somatici asiatici, la maggior parte delle quali è intenta a trasportare carrelli carichi di merce da vendere all’ingrosso, che spinge all’interno delle botteghe. Quasi tutte le vetrine, però, sono semivuote. “Da quando sono arrivati i cinesi l’Esquilino è cambiato” racconta Antonio, pensionato romano che da 25 anni vive nel quartiere. “Ho comprato casa in questa zona a metà degli anni ’90 pensando si andare a vivere in un vecchio rione della classe media romana. Oggi non è più così”. Situato sul colle più alto ed esteso della città, il quartiere fu rinnovato verso la fine dell’800 in perfetto stile umbertino, quando Roma si preparava a diventare la capitale d’Italia: ampie piazze, grandi condomini, lunghe scalinate, profondi porticati. La Stazione Termini è a due passi, il Colosseo non lontano. Eppure circa 20 anni fa questa fetta di centro città è cambiata improvvisamente. “La mattina uscivo di casa” continua Antonio “e dove ricordavo esserci dei vecchi negozi romani erano comparse da un giorno all’altro delle botteghe cinesi. Nell’arco di qualche mese hanno iniziato a rilevare tutte le attività storiche del quartiere, oggi diventato pienissimo di magazzini, grossisti e ristoranti etnici”. Un cambiamento rapidissimo, radicale, inaspettato, che ha mutato totalmente la natura del rione. Diventando l’attuale Chinatown romana. Secondo i numeri forniti dalla Questura i cinesi registrati nella capitale sono circa 30mila, la maggior parte dei quali concentrata proprio all’Esquilino. Che in realtà non è solo un quartiere cinese, bensì multietnico. Sono diverse, infatti, le diverse etnie che convivono a stretto contatto tra di loro e con i romani: soprattutto indiani, pakistani, magrebini e centroafricani. A detta di tutti, però, i cinesi sono quelli più numerosi, che si vedono di più e si sentono di meno. Se la loro presenza è immediatamente visibile attraverso le tantissime insegne colorate dei loro negozi, quella cinese rimane, secondo chi vive il quartiere, una comunità molto chiusa e autoreferenziale. Ma come può essere stato possibile che nell’arco di qualche mese i cinesi si siano comprati il quartiere? In tanti se lo chiedono. Alcuni sostengono che in Cina ci siano possibilità economiche maggiori che in Italia.

Altri che i cinesi abbiamo più voglia di lavorare degli altri e per questo riescano a imporsi sul mercato. In molti immaginano che dietro tutto ciò, però, ci sia la criminalità organizzata. Non esistono inchieste giudiziarie che abbiano fatto emergere la presenza di gruppi criminali organizzati cinesi all’Esquilino. Di problemi di ordine pubblico per le strade non risultano esserci stati. E’ emerso però che diversi ristoranti del rione debbano pagare il pizzo alla mafia cinese. E non solo a loro. A raccontarlo è Alex (nome di fantasia), 29 anni, ragazzo di origini filippine nato e cresciuto a Londra. Di costituzione minuta e dai tratti somatici orientali, di lavoro fa lo chef. Prima di stabilirsi a Roma ha lavorato nelle cucine dei più prestigiosi alberghi del mondo, per poi decidere di aprire un’attività in proprio, un ristorante di lusso in via Cairoli, di fianco a piazza Vittorio, nel cuore dell’Esquilino. “Fare il cuoco in Italia era sempre stato il mio sogno” racconta. “A Roma avevo già diversi contatti nel mondo della moda, dello spettacolo, del turismo e della diplomazia, per questo ho deciso di aprire un ristorante in una zona centrale che rispondesse alle richieste di questo tipo di clientela”. Così, sulla fine del 2010, Alex apre una “Private Longe Bar and Tea Room” un ristorante con sala da the. Molto esclusivo e destinato a coinvolgere clienti di alta fascia. “Non facevamo pubblicità” spiega, “ma facevamo girare la voce in forma privata, di modo da essere frequentati solo da persone di un certo tipo, soprattutto politici, ambasciatori e diplomatici. L’Esquilino ci sembrava la zona ideale dove iniziare, perché in centro ma con prezzi abbordabili. Nessun abitante del quartiere, però, veniva da noi, anche perché non avevamo insegne esterne. Per venire da noi era necessario essere stati informati della nostra esistenza in forma privata. Così facendo garantivamo la privacy che politici e diplomatici ricercavano”. Il primo anno gli affari andarono a gonfie vele. I clienti continuavano ad aumentare e con essi il buon nome del ristorante. La cui esistenza, però, iniziò ad essere conosciuta anche tra i cinesi dell’Esquilino. “A un certo punto iniziammo ad essere frequentati da un gruppo di cinesi sulla mezza età . Venivano da noi due volte a settimana, si sedevano ad un tavolo in un angolo, ordinavano da bere e si guardavano intorno senza parlare. Dal loro modo di fare e di vestire si capiva immediatamente che non erano amici di nessun altro cliente. Provai allora a chiedere loro come fossero venuti a nostra conoscenza, ma non riuscii ad ottenere una risposta soddisfacente: facevano i vaghi, poi si alzavano, pagavano e uscivano per andare in un ristorante cinese sull’altro lato della strada.

È da quello stesso ristorante che, qualche settimana dopo, provenivano un gruppo di persone che iniziarono a chiedere ad Alex il pizzo. “Una sera entrò nel mio locale un gruppo di ragazzi provenienti dal ristorante di fronte” ricorda Alex. “Erano quattro cinesi sui 30 anni, vestiti di nero e con i capelli rasati a zero. Una volta entrati assunsero un atteggiamento prepotente, parlando ad alta voce in cinese, venendo dietro il bancone e pretendendo di farsi offrire da bere e infastidendo i clienti. Uno di loro iniziò a parlarmi in cinese e quando vide che non capivo mi disse in un italiano sgrammaticato che loro controllavano la zona e che avrebbero disturbato i clienti finché non avessi dato loro qualcosa in cambio. Io allora aprì la cassa e diedi loro quello che avevo: 600 euro in contanti. Loro li presero e se ne andarono, ma continuarono a ripresentarsi due volte al mese, comportandosi in maniera analoga ed esigendo la stessa cifra”. Fu così che Alex si trovò a essere estorto dalla mafia cinese nel cuore di Roma, alla quale pagava oltre mille euro al mese. Perché non reagì? Perché non denunciò? “Avevo paura” spiega. “Dopo le prime volte feci un giro per tutti i ristoranti non cinesi del quartiere, che sono soprattutto indiani. Venni alla conoscenza del fatto che ognuno di essi pagava il pizzo alla stessa banda. Pensai quindi che fosse una pratica consolidata in un Paese in cui ero straniero e ebbi paura che reagendo avrei peggiorato le cose. Dopotutto gli affari andavano bene e potevo permettermi di pagare. Almeno all’inizio”. Alex non sapeva, infatti, che presto le spese del pizzo sarebbero diventate insostenibili. Perché ai cinesi si sarebbe aggiunto un secondo gruppo di estortori: degli agenti corrotti della Polizia di Stato. Cosa che Alex non si sarebbe mai aspettato, ma che oggi è pronto a raccontare. “Dopo circa un anno che pagavo i cinesi una sera si presentarono al locale quattro poliziotti in borghese. Dopo avere mostrato i distintivi dissero di essere stati chiamati dai vicini, che si lamentavano per il rumore (inesistente) che facevamo. Con fare prepotente mi chiesero di mostrare loro i documenti del ristorante e il mio permesso di soggiorno, poi iniziarono a chiedere le generalità ai clienti, mettendoli in grande imbarazzo. Non essendoci nulla di irregolare se ne andarono, ma si ripresentarono due giorni dopo e poi due giorni dopo ancora, ripetendo le stesse procedure.

E quando chiesi loro perché continuassero uno mi disse che sarebbero andati avanti così finché non fossi diventato più collaborativo. Allora io estrassi dal portafoglio quello che avevo, 100 euro, e glieli diedi. Lui li prese e senza dire niente se ne andò con i colleghi. Continuando però a tornare ogni due giorni circa, almeno tre volte a settimana, esigendo la stessa cifra perché non disturbassero i clienti”. Alex si trovò così a pagare contemporaneamente due gruppi di estortori. Un primo due volte al mese al quale dava cifre più alte, un secondo al quale pagava cifre più piccole ma più volte alla settimana. “Penso che i cinesi e i poliziotti fossero d’accordo, perché a un certo punto i primi smisero di venire a estorcermi, mentre i secondi intensificarono la loro presenza, tanto che nell’ultimo periodo venivano praticamente tutti i giorni. Una situazione, questa, diventata per me insostenibile sia economicamente che psicologicamente, tanto che decisi di chiudere. Lo feci nel 2013, tre anni dopo avere aperto e circa due anni dopo pagato per la prima volta. Nel frattempo l’estortore era cambiato, ma la sostanza era la stessa”. Nell’arco di due anni Alex ha dovuto pagare circa 25mila euro di pizzo: 13mila ai cinesi, 12mila ai poliziotti. Una perdita tale da averlo costretto a chiudere l’attività dei suoi sogni. Oggi Alex ha lasciato l’Italia, per trasferirsi in Asia, dove di lavoro fa tutt’altro. Prima di partire, però, ha cercato di ottenere giustizia, andando a denunciare l’accaduto al Comune di Roma. Dove ha presentato i nomi dei poliziotti che lo estorcevano, avendoli letti sui distintivi che gli mostravano. La risposta ricevuta, però, è stata che quei nomi non risultavano esistere nei database, per cui nessun ulteriore accertamento sarebbe stato possibile. Una sconfitta, questa, che ha incentivato Alex a lasciare l’Italia, dove per ora non intende tornare. Sul futuro, però, non chiude tutte le porte. “Se un giorno sentissi che all’Esquilino sia stata fatta giustizia e che le autorità italiane si stanno occupando seriamente del contrasto al pizzo e della corruzione tra le proprie forze dell’ordine allora sì, in quel caso mi piacerebbe provare a tornare.

E cercare di riaprire il ristorante dei miei sogni, senza dovere sottostare a nessun tipo di ricatto”.

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