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Ma non possono fare fuori Tria

Ma non possono fare fuori Tria

Quel «Tria stia sereno» detto ieri dal premier Giuseppe Conte sa tanto di epurazione per il ministro dell'Economia. Il suo licenziamento è anche il sogno dei due vicepremier, Salvini e soprattutto Di Maio. Peccato, però, che nessuno di questi abbia il potere di cacciare un ministro. Il quale - dice la Costituzione - è sì «proposto» dal presidente del Consiglio; ma, esattamente come quest'ultimo, è «nominato» dal presidente della Repubblica, nelle cui mani presta giuramento. E questa non è la prima volta che, in casi vicini o lontani, la cacciata di un ministro, per volere dell'opposizione o di parte della sua stessa maggioranza, è finita nel nulla. La Costituzione non prevede questo potere né per il premier, né per il Consiglio dei ministri. Solo dal 1986 è stata introdotta la mozione parlamentare di sfiducia per un singolo ministro, che quindi è l'unico sistema alternativo alle dimissioni. Ma basti ricordare che da allora, a fronte di una ventina di mozioni, solo una volta (nel 1995, Filippo Mancuso) un ministro è stato sfiduciato dal Parlamento. Quindi se il governo gialloverde volesse liberarsi di Giovanni Tria, l'unica strada sarebbe una mozione di sfiducia parlamentare, assumendosi responsabilità e rischi dell'operazione. L'alternativa è solo quella delle dimissioni. Ma perché Tria dovrebbe darle? E perché mai il Parlamento dovrebbe sfiduciarlo? Il tema più attuale del contendere è quello dei rimborsi a circa 200mila risparmiatori che hanno perso soldi con il crac delle banche finite in liquidazione tra il 2015 e il 2017 (le principali sono Pop Etruria, Banca Marche, CariChieti, CariFerrara, Pop Vicenza e Veneto Banca). Esiste però una recente legge (cosiddetta del «bail in») che in caso di crac bancario prevede che i costi siano sostenuti anche da chi è titolare di azioni o obbligazioni. Quindi nulla è dovuto a nessuno. A meno che, ammette in deroga la nuova disciplina (europea, recepita dall'Italia), le perdite siano facilmente attribuibili a casi di misselling. Vale a dire vendite fraudolente di titoli, effettuate in aperta violazione di regole di trasparenza sulle informazioni e sui rischi. Ebbene, quello che Tria chiede è che venga rispettato questo passaggio e che quindi i rimborsi non siano diretti a tutti, ma concessi solo a chi è stato realmente raggirato; e non a chi invece, per conoscenze finanziarie o abitudini operative, non poteva non sapere che rischiava di perdere tutto il capitale, anche prima del «bail in». Quindi nella sua posizione Tria non fa altro che difendere un interesse pubblico. Cioè i soldi dei contribuenti italiani (1,5 miliardi di fondi stanziati). E lo fa nel rispetto della legge, nazionale e comunitaria, tutelando se stesso, il suo ministero e tutti quanti noi da un danno erariale. Una posizione ben diversa da quella di Luigi Di Maio, suo principale oppositore, che vuole rimborsi diretti a tutti. E non accetta nemmeno lo spiraglio, concesso da Bruxelles a Tria, di ampliare i ristori ai soggetti socialmente più deboli. Il che porterebbe al 90% il rimborso diretto. Idem anche per Conte, che nell'ultimo Consiglio dei ministri ha parlato dell'enorme valore che i rimborsi diretti a tutti assumono «in termini elettorali». Se quindi si vuole far fuori Tria, si deve andare in Parlamento. E chiedere chiaramente di fare una scelta: tra un interesse nazionale e uno solo elettorale.

Dei Cinque Stelle.

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