Cronache

La notte social di Matteo scrittore da Mulino Bianco

Una lenzuolata per celebrare il distacco da Palazzo Chigi: la narrazione cade sulle bollette e la taverna

La notte social di Matteo scrittore da Mulino Bianco

L'arte oratoria è, notoriamente, più difficile di quella del governo. Matteo Renzi, un passato da leader politico e un futuro da scrittore emotionally correct, ha per ora fallito nella seconda, ma dà ottima prova nella prima. Archiviata la figura nel referendum, è passato con stile coraggioso alle figure retoriche. Sempre da premier della classe e sfoggiando un'Ars dicendi di ciceroniana reminiscenza ginnasiale. Liceo Dante di Firenze con maturità 60/60. Inventio, dispositio, elocutio, memoria...

Matteo Renzi ha buona memoria, e prosa ruffiana. Sono entrambe ottime qualità.

Ieri, su Facebook, ne ha dato una prova commovente. Nella notte, momento propizio per i bilanci esistenziali e le perifrasi torrenziali, ha postato un lungo addio a Palazzo Chigi, mille giorni in 3200 battute, luoghi comuni inclusi, 50 righe, lacrime e refusi. Salta l'exordium, ed è subito narratio. Che oggi si dice storytelling: «Torno a Pontassieve, come tutti i fine settimana. Entro in casa, dormono tutti...». L'incipit è tra la dimessa Weltanschauung veltroniana e Famiglia cristiana riletta da Moccia. Tocca i cuori delle mamme e accarezza l'etica dei lavoratori. Dopo, inizia il racconto. «Il gesto dolce e automatico di rimboccare le coperte ai figli, un'occhiata alla posta cartacea arrivata in settimana tanto ormai con internet sono solo bollette, il silenzio della famiglia che riposa...».

Matteo Renzi non dorme mai, neppure ora. Il suo post narra di una sconfitta, ma la scrittura è vittoriosa. Il vizio è la falsa modestia, il virtuosismo sta nello stile. «Torno semplice cittadino». Pathos e anafora. «Non ho paracadute. Non ho un seggio parlamentare, non ho uno stipendio, non ho un vitalizio, non ho l'immunità». Anche lui proverà l'amarezza del jobs act. Fra precariato e consecutio temporum.

I tempi sono difficili, Matteo Renzi ha fatto tutto ciò che era possibile. Lo rivendica, e non rimpiange. La narrazione procede. Mulino bianco e battute a affetto. Tempi comici e Baricco. «Nei prossimi giorni sarò impegnato in dure trattative coi miei figli per strappare l'utilizzo non esclusivo della taverna di casa: più complicato di gestire la maggioranza».

La maggioranza sono frasi fatte, cliché, artifici retorici. La scrittura zoppica, ma l'epica è felice. «Quando il popolo parla, punto. Si ascolta e si prende atto. Gli italiani hanno deciso, viva l'Italia». «In un Paese in cui le dimissioni si annunciano, io le ho date». «La politica per me è servire il Paese, non servirsene». Anche l'emotività, non solo la politica, procede per slogan. È l'eloquenza che traccia l'aforisma, ma è l'enfasi che lo difende.

«Ci sono migliaia di luci che brillano nella notte italiana. Proveremo di nuovo a riunirle». Quando la retorica dimentica la realtà. La maggior parte degli italiani non riesce a pagare nemmeno la bolletta delle tue luci, chiosano i suoi nemici di Facebook. Ogni leader ha i follower che si merita. Ogni scrittore le proposizioni che sa coniare.

«Non si arriva se non per ripartire». Siddharta, ritradotto da un mediocre ghostwriter della Leopolda.

«È nei momenti in cui la strada è più dura che si vedono gli amici veri». Coelho, aggiornato dal capo della comunicazione del Monte dei Paschi.

«Solo chi cambia aiuta un Paese bello e difficile come l'Italia». Gramellini, ritwittato da Severgnini.

E la chiusa suona profetica: «Ci sentiamo presto, amici». Il veleno, non solo sintatticamente, è sempre nella coda.

Ubi leonis pellis deficit, vulpina induenda est.

«Quando manca la pelle del leone, bisogna indossare quella della volpe», ripetevano gli oratori latini.

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