Cronache

La nuova moda dei politici che ora si affidano a Dio

I l premier Giuseppe Conte che passa tre intere giornate sulla tomba di padre Pio a San Giovanni Rotondo e il ministro del Lavoro Luigi Di Maio che negli stessi giorni bacia la teca con il sangue di San Gennaro a Napoli aprono una pagina nuova sui rapporti tra politica e religione in Italia. In quelle ore i due avrebbero avuto i loro buoni motivi per essere altrove: il varo della legge di Stabilità, la ricostruzione del ponte Morandi a Genova, le polemiche sulle epurazioni annunciate dal portavoce di Palazzo Chigi. Eppure hanno scelto di tuffarsi nella religiosità popolare del profondo Sud, tra santi e reliquie.

Nemmeno nella prima Repubblica, quando il primo partito italiano (...)

(...) si diceva «cristiano» già nel nome e molti votavano mettendo una croce sulla croce, le manifestazioni devozionali erano così esibite. Il confronto tra fede e politica era sui contenuti: aborto, divorzio, famiglia, scuola libera, 8 per mille. I leader Dc in parte erano collaterali e in parte no, come dimostra per esempio il caso di Giulio Andreotti, che pur andando a messa ogni giorno all'alba, firmò la legge 194 da capo del governo con l'altrettanto cattolicissima Tina Anselmi ministra della Sanità.

Nella seconda Repubblica, con l'avanzare delle questioni bioetiche, il rapporto della politica con la religione si è quasi azzerato. Ognuno è sostanzialmente andato per conto suo, anche se il confronto ha conquistato schiere di «atei devoti» desiderosi di misurarsi con il magistero e di difendere principi etici da posizioni lontane dalla Chiesa. Ma, al momento di decidere, le indicazioni ecclesiastiche non uscivano dalle sagrestie. Un caso su tutti: l'approvazione della legge sulle unioni civili. La separazione tra Stato e Chiesa sembrava compiuta, anche perché l'unità politica dei cattolici è ormai un lontano ricordo e l'ascendente dei parroci sugli elettori è svanito, benché la Chiesa non abbia mai cessato di difendere i propri diritti nello spazio pubblico.

Invece ecco premier e ministri che cambiano paradigma e riabilitano la sensibilità religiosa. Ogni paragone con il cattolicesimo democratico del dopoguerra è improponibile, e così pure con i partiti popolari europei e con le politiche della sussidiarietà che per anni hanno proclamato «più società meno Stato» ispirandosi alla Dottrina sociale della Chiesa. Adesso qui non c'è né Chiesa né dottrina ma una loro caricatura, un populismo religioso che pesca nelle masse devote, spesso ignare del confine tra fede e superstizione, nonostante il tentativo di Di Maio di accreditarsi presso la gerarchia facendosi intervistare da Avvenire.

E c'è pure un'abile esibizione della pratica religiosa, perché accanto al bacio della reliquia compaiono il rosario e il Vangelo agitati nei comizi di Matteo Salvini come talismani contro l'invasione islamica. Mentre però per i Cinque stelle la fede si riduce a poco più che una grande festa patronale con processione e sagra, per la Lega è invece un forte elemento identitario attorno al quale coagulare gli ultimi cattolici militanti e le piazze del Family Day. Gianfranco Amato (e la gran parte degli iscritti con lui) ha lasciato il Popolo della famiglia, partito che aveva fondato assieme a Mario Adinolfi, per dare un'apertura di credito al governo gialloverde. Accanto all'Italia dei santuari, anche una religione identitaria e accerchiata è ancora in grado di fornire parecchi voti.

Stefano Filippi

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