Cronache

Piangevano per il tetto di Notre-Dame non per i martiri

Piangevano per il tetto di Notre-Dame non per i martiri

Scambiare un cortocircuito per l'Isis fa intendere la capacità di reazione di intellettuali, politici, tecnici davanti alla realtà da interpretare. È quanto è accaduto la sera di lunedì scorso, quando - di rientro da una conferenza - sono stato assediato per pronunciarmi su Notre-Dame in fiamme, notizia planetaria che ci ha lasciati nel tormento e nell'incertezza.

Otto ore di bombardamento mediatico, con tutto lo sconforto di decine di «intellettuali». Io appaio subito il più cinico. Osservo, con la giusta preoccupazione, ma senza esaltazione, l'incendio; e alle 20.02 dichiaro al Tg1 che la ricostruzione sarà semplice e integrale, restituendoci il monumento esattamente com'era. Falso com'era, essendo notoriamente una ricostruzione neomedievale di Eugène Viollet Le Duc. Lo abbiamo capito due giorni dopo vedendo l'edificio sostanzialmente intatto, salvo il tetto di legno bruciato, che assimila Notre-Dame a fascinosi luoghi come lo «Spasimo di Sicilia» a Palermo e l'Abbazia di San Galgano, vicino a Siena. Nel dramma non c'era tragedia: non un morto, non un attentatore, non una rivendicazione, un incendio accidentale non doloso. Il fuoco a Notre-Dame era troppo evocativo, non poteva non richiamare, soprattutto col crollo della guglia neogotica, ruffiana e fasulla, l'11 settembre. Per tutto il mondo la tragedia appariva irreparabile.

Quando, a fuochi spenti, è apparso il «costruttivo» Macron, l'ipnosi collettiva ha iniziato a evaporare. Il giorno dopo non si contavano le prudenti marce indietro, e si disegnava una prospettiva meno funesta, tant'è che Beatrice Dondi, su L'Espresso, mi ha definito «gigante del buon senso» anti retorico.

Passiamo a un altro scenario. Nello Sri Lanka, il giorno di Pasqua, ci sono otto esplosioni, di cui tre in chiese cristiane, tre in hotel con ospiti occidentali: trecento morti e cinquecento feriti. Si sono individuati sette kamikaze collegati a una rete internazionale in sostegno del gruppo jihadista srilankese National Thowheed Jamath. Sarà che è Pasqua, sarà che i morti cingalesi pesano meno delle pietre di Notre-Dame (benché vi siano 37 vittime occidentali), la notizia scivola su di noi, e si dissolve nelle nostre coscienze. E consideriamo pure che Parigi è Parigi, senza attentatori e morti, e Colombo è Colombo, con 300 anime perdute. Ma l'emozione si è spenta subito, perfino il Papa, parlando in piazza, pareva distratto. E sarà che c'era, dopo la Pasqua di sangue, la Pasquetta, le vacanze, le redazioni tv a scartamento ridotto, e i quotidiani non in edicola; e i nostri sentimenti, le emozioni, la fine del mondo, evocati per Notre-Dame, sono evaporati subito.

Non ho ricevuto nessuna telefonata (non c'era un grande monumento ma trecento morti), nessun collegamento televisivo, nessuna radio; e la sensazione che il dramma cosmico, il dolore universale, la fine del cristianesimo, e tutto quello che si era detto per un tetto di legno, non valesse per i corpi mutilati, per lo spirito religioso di tanti fedeli. E neppure la coincidenza con la resurrezione di Cristo avrà fatto segnare nella nostra memoria il giorno di Pasqua del 2019 come un momento di grande lutto per il mondo cristiano. 300 morti dei 300 milioni di perseguitati, in diverso modo e in diverse parti del mondo, solo perché cristiani. Qualcosa di più esplicito e diretto, perfino rispetto all'abbattimento delle due torri, che è stato invece non un attacco a una inerme religione, ma un attacco all'Occidente. Uccidere uomini che pregano in chiesa vuol dire colpire lo spirito religioso, vuol dire creare terrore.

E i morti sono martiri cristiani, uccisi per la loro fede, che, con orgoglio, il Papa dovrebbe proclamare santi.

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