Cronache

La prigione degli orrori in Libia gestita dalla polizia

Diversi migranti testimoniano agli inquirenti il ruolo di alcuni libici in divisa all'interno della prigione di Zawya, base operativa dell'organizzazione criminale che lucra sul traffico di esseri umani colpita dal blitz odierno in Sicilia

La prigione degli orrori in Libia gestita dalla polizia

Gente in uniforme, con mitra in mano e pronta a prendere i migranti ed a portarli all’interno di uno dei locali di Zawya dove opera l’organizzazione colpita questo lunedì dalle inchieste della Dda di Palermo e della procura di Agrigento.

Emergono nuovi particolari dalle testimonianze che arrivano dagli stessi migranti che, una volta approdati in Italia, collaborano con gli inquirenti per identificare i propri carcerieri e ricostruire, ancora una volta, le dinamiche criminali perpetuate all’interno dei centri di detenzione libici.

Le prime testimonianze emerse a poche ore dal blitz in questo lunedì mattina, parlano di una ex base militare a Zawya, città lungo la costa tripolina ad ovest della capitale libica, dove i migranti vengono rinchiusi fin quando non pagano il riscatto richiesto dai trafficanti di esseri umani. I migranti in questione provengono in gran parte dall’Africa sub Sahariana e, dopo la risalita del deserto, arrivano quindi a ridosso delle coste della Libia in attesa di essere spediti verso l’Italia.

Ma è proprio qui che si origina l’inferno: le organizzazioni criminali tengono in ostaggio le decine di persone che attendono di salire sopra un barcone, chiedendo loro migliaia di Dinari per riacquistare la libertà. E durante la detenzione, i trafficanti di esseri umani attuano ogni genere di abusi e torture verso donne, uomini e bambini.

Le ultime testimonianze trapelate dalle pagine dei verbali degli inquirenti, riportano anche il coinvolgimento di personale libico in uniforme. Non solo quindi criminali di nazionalità sub sahariana, ma anche libici che si camuffano in uomini delle forze dell’ordine oppure che sfruttano la loro posizione per dare manforte alle organizzazioni malavitose.

Se gran parte dei migranti interrogati riconosce in un certo Ossama, cittadino libico, il leader dell’organizzazione di Zawya, altri migranti parlano per l’appunto di personale in divisa che li costringe sotto la minaccia delle armi a mettersi nelle mani dei criminali.

"Mentre io mi trovavo a Zuara, ero in gravidanza, venivo catturata, insieme a mio marito, da uomini libici, vestiti in uniforme – dichiara una donna sbarcata a Lampedusa a luglio e giunta l’anno prima in Libia – Venivamo, contro il nostro volere, condotti ed imprigionati a Zawyia, all'interno di una ex base militare adibita a prigione”.

“Ero in una prigione gestita dalla polizia”, taglia corto un altro migrante il quale parla anche lui di personale identificato come appartenente a forze vicine al governo di Tripoli. Sempre nei verbali contenenti gli interrogatori, spunta anche una testimonianza che parla di un container gestito dall’Oim, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di migrazioni: “C’era una persona che indossava la casacca dell'Oim, era vicino a un altro uomo con le stellette all’interno della prigione”.

Una circostanza quest’ultima che avrebbe del clamoroso e che vede però una secca smentita da parte della stessa Oim: “Nel campo di Zawyia, in Libia, non abbiamo dei container dell'Oim – afferma all’AdnKronos Flavio Di Giacomo, portavoce Oim – L'unico container in Libia lo abbiamo in un centro a Tripoli per i casi di Tbc, ed è molto vicino al container dell'Unhcr. Tutta questa storia stona un po’”.

Tra personaggi in divisa al fianco di criminali e tra libici che collaborano con carcerieri sub sahariani, indubbiamente emergono elementi sia inquietanti che alquanto strani.

L’indagine odierna conferma ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno, che il business dei migranti in Libia fa gola a molti e conduce a situazioni, oltre che raccapriccianti, anche molto dubbie.

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