Scena del crimine

Raffaele Sollecito: "Fui trattato come un mostro, ma sono vittima di ingiustizia"

Raffaele Sollecito, condannato e poi assolto per l'omicidio di Meredith Kercher, si racconta a Il Giornale.it: "Pago gli errori della magistratura per un reato che non ho commesso"

Raffaele Sollecito: "Fui trattato come un mostro, ma sono vittima di ingiustizia"

Da sospetto assassino di Meredith Kercher a vittima della giustizia. Non c'è pace per Raffaele Sollecito da quando i riflettori della cronaca nera si sono accessi nella villetta di via della Pergola, a Perugia, quel tragico giovedì 1° novembre del 2007. Dapprima una condanna a 25 anni di reclusione per concorso in omicidio con Amanda Knox, poi 4 anni di detenzione e, infine, l'assoluzione "per non aver commesso il fatto". Tredici lunghi anni di calvario, né un giorno in più né uno in meno. Perché nonostante la sentenza definitiva della Cassazione nel 2015 attesti la sua totale estraneità al delitto, riconoscendo invece la presenza di numerosi errori nelle indagini, Sollecito porta addosso ancora le scorie di un complesso e articolato iter giudiziario. Scorie che si traducono in debiti da 1 milione e 200mila euro per un reato che - lo dicono i giudici - non ha commesso e per un processo che lo ha coinvolto a 23 anni.

Nel 2017, la Corte d'Appello di Firenze gli ha negato il risarcimento per ingiusta detenzione che avevano richiesto i suoi difensori, gli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori. "Sussiste una ingiusta detenzione stante la sopraggiunta assoluzione dell’istante - avevano spiegato i giudici della terza sezione penale - Ma proprio lui ha concorso a causarla con la propria condotta dolosa o gravemente colposa". Una condotta, scrivevano i magistrati, “consistita nel rendere alla polizia giudiziaria, agli inquirenti, e ai giudici, in particolare nelle fasi iniziali delle indagini, dichiarazioni contraddittorie o addirittura francamente menzognere, risultate tali anche alla luce delle valutazioni contenute nella sentenza definitiva di Cassazione".

Lo Stato avrebbe dovuto risarcirla di 3 milioni e 600mila euro. E invece cosa è successo, si è ribaltata la situazione?

"È una situazione assurda Sono io a dover pagare per un reato che non ho commesso, per un processo che non ho causato. Dopo tutte le difficoltà che ho avuto, le discriminazioni e i pregiudizi che ho dovuto subire, dopo quello che abbiamo passato io e la mia famiglia, mi aspettavo che lo Stato mi aiutasse a riprendere in mano la mia vita. Invece, sono stato trattato da reietto, un emarginato sociale. Come se l'assoluzione avesse dovuto bastarmi e io non abbia diritto a chiedere di più. Così, come se fosse stato un gioco quello che ho vissuto ma non lo è stato".

Come commenta le motivazioni della sentenza della Corte d'Appello di Firenze riguardo alla vicenda?

"È paradossale, fuori dal mondo. Come se fossero colpa mia tutti gli errori processuali. Io avevo 23 anni al tempo, stavo per laurearmi in ingegneria informatica e non avevo mai messo piede in una questura. Cosa ne potevo sapere di quali fossero i meccanismi che avrebbero portato ben 40 inquirenti, con una esperienza consolidata alle spalle, a una deviazione delle indagini? Se lo avessi saputo, quando sono andato a rendere dichiarazioni spontanee come persona informata dei fatti, mi sarei tutelato con un avvocato. Invece, non l'ho fatto proprio perché non avevo nulla da nascondere, neanche un callo. Sono stato ingenuo. E ora mi ritrovo a dover pagare una cifra allucinante".

Un milione e 200mila euro di cui 636.212,23 agli avvocati che l'hanno assistita. Giusto?

"Sì. In parte, 400mila euro sono stati già saldati. Ma abbiamo dovuto ipotecare i beni immobiliari appartenuti a mia madre che è morta. È stato atroce privarsi di qualcosa che per me e la mia famiglia aveva un inestimabile valore affettivo. Senza contare che anche mio padre, nonostante sia un medico, ha dovuto indebitarsi perché i soldi non erano mai abbastanza. Ci sono state spese importanti che abbiamo dovuto sostenere, 15 consulenti da pagare e tante altre cose. Ed è assurdo che abbia dovuto farlo in nome di uno Stato che non mi ha mai tutelato".

In che direzione si sta muovendo adesso con i suoi legali?

"Ci siamo rivolti alla Corte Europea e siamo in attesa di risposta. Siamo in causa contro lo Stato per responsabilità civile dei magistrati. Inoltre, abbiamo intentato un processo di merito contro i magistrati che mi hanno accusato perché in tutti quegli anni, mi riferisco a quelli del processo, non hanno minimamente tenuto conto di quelli che erano i fatti. Si sono chiusi in una idea di colpevolezza nei miei confronti che era più per partito preso che fattuale. Hanno seguitato per la loro strada e, talvolta, lo hanno fatto anche con dolo".

Oltre all'ingente esborso economico, quale eredità emotiva si porta dietro?

"Sono stati anni tragici per me e la mia famiglia. Dopo la scarcerazione sono finito in depressione. È difficile ritornare alla normalità dopo che sei stato per anni in un ambiente ostile, totalmente estraneo a quella che era stata la mia vita prima del processo. Sapevo che non sarebbe stato facile ma non mi aspettavo tutto questo. Mia sorella ha perso il lavoro, mio padre ha avuto problemi con i suoi colleghi e io stesso ho dovuto combattere contro i pregiudizi delle persone, soprattutto al lavoro. Sostenevo colloqui di lavoro con multinazionali, mi pagavano la trasferta e tutto quanto ma poi, quando scoprivano che avevo un profilo mediatico complesso mi rispedivano indietro nel giro di un paio di giorni. Non è basta una assoluzione per cancellare l'idea che le persone si sono fatte di me".

Perché, che idea crede si siano fatte le persone di lei?

"Di un 'mostro', un freddo calcolatore. Ma io non do la colpa alla gente che neanche sapeva chi fossi o cosa facessi nella mia vita. Purtroppo, anche in questo caso, non sono stato supportato da chi avrebbe dovuto farlo. Quando sono cominciati a emergere gli errori nelle indagini, negli Stati Uniti, il Paese di Amanda, hanno iniziato ad alzare la voce, a reclamare giustizia e verità. Dopo l'assoluzione, Amanda è stata accolta - giustamente - come una vittima. È stata supportata e aiutata a rifarsi una vita. Una scelta che io appoggio totalmente dal momento che lei, com me, è stata una vittima ingiusta. Invece, per me così non è stato. Non c'è stato nessuno che abbia quantomeno insinuato il dubbio sulla mia innocenza. In Italia, lo Stato se ne è lavato le mani. Come a dire 'ti ho assolto ma adesso sono cavoli tuoi'. E non è così che dovrebbe funzionare".

Nei giorni successivi al delitto, i telegiornali riproponevano spesso le immagini di lei e Amanda fuori dalla villetta di via della Pergola. Quanto pensa possa aver inciso l'atteggiamento che aveva in quel momento sui risvolti successivi della vicenda?

"Io ero sotto choc, in uno stato di confusione. Non avrei mai immaginato di ritrovarmi in una situazione del genere. Il fatto che non mi disperassi o versassi un mare di lacrime non vuol dire che la tragedia mi era indifferente. Anzi, ero molto dispiaciuto e mi sentivo smarrito. Eppure, l'impianto accusatorio si basò sostanzialmente su quei comportamenti che avevamo io e Amanda nelle ore e nei giorni dopo. Non c'erano evidenze fattuali che comprovassero un mio coinvolgimento nella vicenda. Si può condannare all'ergastolo una persona sulla base di un sensazionalismo inconsistente o sulla base di ricostruzioni mediatiche? Io non credo sia corretto. Eppure, con me i giudici hanno fatto questo: si sono chiusi nelle loro ipotesi di colpevolezza e hanno continuato per quella strada. E neanche di fronte a errori evidenti sono tornati sui loro passi o si sono posti il dubbio sul corretto svolgimento delle indagini. Ma sia io che Amanda siamo state solo due vittime".

È stato per 6 mesi in isolamento. Cosa vuol dire essere reclusi tra quattro mura senza vedere né poter parlare con qualcuno?

"È una esperienza fortissima e drammatica, non ci sono altre parole per descriverla. Ti mettono a marcire in un cella dicendoti che da quel momento la tua vita non avrà più un senso, che trascorrerai il resto dei tuoi giorni in uno stanzino. In un attimo, vengono cancellati sogni, ambizioni e aspettative. Per loro tu sei colpevole, hai tolto il futuro ad una persona e quindi non meriti di averne uno".

Quando ha capito che questo tragico capitolo della sua vita si stava concludendo?

"Ci sono stati vari momenti in cui abbiamo fatto un passo avanti. Penso a quando è stata letta la perizia dei giudici di appello in cui era descritto tutto quello che era stato fatto in termini di analisi dei reperti dimostrando la mia estraneità alla vicenda, lì ho provato un grande sollievo. Un altro momento importante è stata la scarcerazione e poi, ovviamente, l'assoluzione definitiva. Ma la parola 'fine', in realtà, non c'è mai stata per tutto quello che è accaduto dopo".

Poi le cose sono cambiate? È riuscito a rifarsi una vita?

"Sì, ma ho dovuto farlo da solo, con le mie uniche forze. Certo, non mi aspettavo che poi sarebbe stato tutto gioioso e bello ma neanche che avrei dovuto riabilitarmi. Lo Stato è stato totalmente assente. Nessuno mi ha dato una sola chance nonostante io non avessi fatto nulla per meritare tutto quel dolore. Mi fa ancora male parlare di questa storia, tutte le volte è una tortura. Ma mi costringo a farlo perché ci sono tante persone che come me hanno subito un'ingiustizia. E magari posso essere uno sprone per qualcuno che non ha la forza di reagire".

Chi è oggi Raffaele Sollecito e cosa farà domani?

"Intanto, ho scritto due libri, uno pubblicato in Italia e uno negli Stati Uniti. Ho vari progetti in cantiere legati al settore in cui sono competente, ovvero, la tecnologia informatica. E poi un sogno che, se avessi avuto la possibilità economica, avrei già realizzato. Mi piacerebbe creare un'associazione per aiutare i detenuti a un percorso di riabilitazione sociale. Non si possono condannare le persone due volte.

Tutti meritano una seconda chance".

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