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Rai, va in onda il fallimento del rottamatore

Renzi e il caos stipendi

Rai, va in onda il fallimento del rottamatore

Il golpe democratico di Renzi non è riuscito. Ricordate quando il rottamatore sognava il Partito della nazione? L'idea era di fare le riforme, vincere il referendum come fosse un plebiscito, allargare il consenso oltre i confini storici del Pd e prendersi tutto. In modo pulito, quasi naturale.

Per tutto s'intende il potere, quello vero, quello che dura un paio di generazioni. La partita non è ancora del tutto chiusa, ma da allora i punti di forza del renzismo si sono sgretolati. L'immagine più nitida di questa scivolata è la Rai. Renzi, ragazzo da social network e comunicazione veloce, sapeva (e sa) che la Rai è sempre la Rai. È come la mamma. E se vuoi il consenso politico devi portare a casa la televisione di Stato. Le prime mosse sono state furbe. «Fuori i partiti dalla Rai». Basta lottizzazioni. Niente manuale Cencelli. Al posto dei tanti ne bastava uno: lui. Questa doveva essere la Rai di Renzi, con i suoi uomini, con i supermanager e la cascata di uomini nuovi, alternativi, magari pure creativi. Qualcosa non ha funzionato e quello che resta è un filotto di mosse sbagliate.

Il canone vale un autogol. L'idea che con la bolletta della luce arriva incorporata una tassa da pagare ha scatenato la rabbia e l'irritazione degli italiani. Il governo dice che così si finanzia un'azienda che ha bisogno di ritrovare se stessa, troppo vecchia rispetto ai concorrenti, malandata, come una vecchia gloria che non ha più fiato e forza. Bene, giusto pagare il canone, anche se così è antipatico. Solo che prima bisognerebbe eliminare privilegi e vizi. Renzi parla di trasparenza, di tetti salariali, di stipendi umani e poi si scopre che ci sono ben 94 Paperoni per cui questa legge non vale.

Non uno o due fuoriclasse su cui chiudere un occhio, ma novantaquattro irregolari strapagati. È questo il rinnovamento? È chiaro che quella tassa è politicamente un mezzo suicidio. Le parole d'ordine del renzismo erano: basta lottizzazioni, basta epurazioni politiche, ma soprattutto basta sprechi, stipendi senza limiti e assunzioni esterne. Non bastano i dipendenti che già ci sono in azienda? A quanto pare no. La Rai già piena di generali ha solo ingrassato lo stato maggiore. Il risultato è un esercito di pezzi grossi, spesso litigiosi e permalosi, in eterno conflitto tra loro. Buona parte di questa gente non pensa all'azienda ma a non perdere poltrone e rendite. E i nuovi non fanno differenza.

Non solo. Renzi si è accorto che Antonio Campo dall'Orto non è il mago, il genio, che si aspettava. Ne è rimasto deluso e infastidito, ma senza assumersi la responsabilità della scelta. Come se con i suoi 600mila euro di stipendio non l'avesse messo lì lui. Ha cominciato a dire che tutto quello che accade in Rai avviene, neppure fosse uno Scajola qualsiasi, a sua insaputa. Non vede, non sente, non parla. Come se Giannini e Porro non li avesse cacciati lui, come se Campo dall'Orto non avesse selezionato una marea di professionisti esterni con le stimmate renziane, per lo più scelti nel giro di Repubblica, a cifre superiori ai 200mila euro, recuperando pensionati come consulenti, vedi Francesco Merlo, o bocciati dagli ascolti, vedi Daria Bignardi come direttore di rete con stipendi da 300mila euro, o ancora conduttori ormai di nicchia come Gad Lerner ma con gli amici giusti. Quella che insomma doveva essere la finestra sul reale rinnovamento del Paese sta diventando il buco nero che inghiotte ogni giorno di più il premier.

E la Rai è diventato lo specchio di un fallimento.

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