Cronache

Riina, la sentenza choc. Ma anche il garantismo ha un limite

Questa sentenza choc della Cassazione non rischia di rimandare all'affetto dei suoi cari il detenuto «x» che sta morendo (e che magari proprio perché è il detenuto «x» cui nessuno dà voce muore in carcere) ma Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra

Riina, la sentenza choc. Ma anche il garantismo ha un limite

Siamo garantisti, lo sapete. È nel nostro dna, lo siamo con chiunque, crediamo che il diritto e il rispetto della persona vengano prima della legge del taglione. E però. E però a volte essere garantisti è difficile. E questa è una di quelle volte. Perché questa sentenza choc della Cassazione non rischia di rimandare all'affetto dei suoi cari il detenuto «x» che sta morendo (e che magari proprio perché è il detenuto «x» cui nessuno dà voce muore in carcere) ma Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra, l'inafferrabile che per oltre 20 anni ha beffato lo Stato sposandosi in latitanza e mettendo al mondo quattro figli vissuti da clandestini sino al 15 gennaio del '93, il giorno del suo arresto. La «belva» che ha sulle spalle così tanti omicidi che non è possibile contarli.

Siamo garantisti. E però. E però questa sentenza in nome del popolo italiano che dice che sì, Riina ha diritto a una morte dignitosa come ogni detenuto, non sembra pronunciata proprio nel nostro nome. Non ci riconosciamo, non ce la facciamo a considerare alla stessa stregua il capo dei capi di Cosa nostra dall'«indiscusso spessore criminale» e un detenuto qualunque nelle sue stesse condizioni di salute. Limite nostro, forse. Ma limite anche degli italiani, la storia ce lo insegna.

Nell'Italia del dopo Tangentopoli fatta di gogna, anti-politica e tintinnio di manette, non c'è stata una levata di scudi, e meno che mai una sentenza, che abbia concesso a Bettino Craxi, leader Psi inquisito ed esiliato, di curarsi in Italia e di morire nel nostro Paese. La giustizia lo ha perseguito, la politica non ha voluto, umanamente, sostenerlo. E non aveva al suo attivo il numero di omicidi che pesano sul curriculum criminale di Riina. Eppure no. Nessuna pietas, né per lui né per i suoi familiari. E adesso dovremmo averla per Riina malato? E perché?

Da Tangentopoli alla mafia. Lo stesso Stato che oggi in nome del popolo italiano sentenzia che Riina ha diritto a una morte dignitosa (strana l'associazione della parola diritto a una persona che i diritti, primo tra tutti quello alla vita altrui, li ha calpestati) ha tenuto in ospedale al 41 bis ridotto allo stato vegetativo il suo compagno di delitti e scalata a Cosa nostra, Bernardo Provenzano. Erano d'accordo tutti, pure i periti dell'accusa dicevano che ormai Provenzano era poco più che un vegetale. Ma è morto in ospedale, al 41 bis.

Siamo garantisti. E però. E però, francamente, è difficile riconoscere a Riina gli stessi diritti del detenuto qualunque e con sulle spalle meno omicidi di lui. Quei diritti che spesso il detenuto qualunque non ha.

E che non si capisce perché ora dovrebbero ora essere appannaggio del capo dei capi di Cosa nostra.

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