Cronache

Saluto soprattutto un grande italiano

Saluto soprattutto un grande italiano

Mi piace pensare, in fondo lo spero, che domenica alle 17 non venga scritta la parola fine. Perché negli occhi di Gianluigi Buffon leggo ancora voglia di calcio. Che sia di campo, panchina o scrivania non lo so, eppure in quello sguardo c'è brama di pallone vero, non di quei tanti cimiteri India, Cina, Arabia, America, Australia - dove i vecchi elefanti diventano ancora più ricchi facendo finta di giocare come pensionati globe trotter. Di erba autentica invece, a difendere i pali magari in Premier: fosse un tarocco, allora meglio chiudere qua.

In ogni caso, da domani, non sarà più come prima, anche se noi juventini di portieri eccezionali ne abbiamo avuti davvero tanti: Dino Zoff, a cui tutto sembrava facile, anche i miracoli, Tarzan Tacconi, che dopo il friulano ha riportato la follia, Angelo Peruzzi, guardiano dell'ultima Champions. Sciagurato il solo Van Der Saar che, via da Torino, ha imparato a parare. Diciassette anni fa arrivò Gigi e la storia è diventata leggenda. Undici scudetti, quattro Coppe Italia, tre finali di Champions perse (così accontento i detrattori), un campionato di serie B. Ripartiamo proprio da lì, dall'estate 2006 che seguì Farsopoli, quando Buffon si prese la Coppa del Mondo e poi decise di restare alla Juve, anche se tutt'Europa lo avrebbe voluto. Spiegò: questa società mi ha dato così tanto e ora è il momento di restituire. Non gliene fregava niente di giocare contro Arezzo, Frosinone o Mantova invece di Liverpool, Barcellona o Real Madrid. Ogni persona ha la propria scala di valori e per Gigi è più importante l'attaccamento alla maglia. Quell'estate Buffon si è legato per sempre ai colori bianconeri, non so chi lo avrebbe fatto al suo posto ammenoché non si fosse chiamato Chiellini, Camoranesi, Del Piero, Nedved, Trezeguet. Uomini prima che atleti.

Il calcio, oggi, è melassa buonista. Si sentono dire sempre le stesse cose, «la palla è rotonda», «fino alla certezza matematica» e altre simili amenità. Buffon non si è mai espresso per banalità, rischiando spesso di urtare il prossimo. Ha parlato da capitano, da leader, condottiero, ha esultato, gioito, pianto. Ha abbracciato i compagni per affetto e gli avversari per stima. Si è ribellato alle ingiustizie alzando la voce e beccandosi le critiche dei perdenti cronici. Si è incazzato perché gli hanno tolto la possibilità di inseguire per l'ultima volta quella coppa maledetta, esagerando come un ultrà qualsiasi.

Certamente Buffon non è un democristiano del pallone, di quelli dello stucchevole fair play. Buffon, per l'ultima volta allo Stadium, lascia soprattutto da italiano, solidamente attaccato alla Patria, alla Nazione, alla sua e alla nostra maglia, complice di un sentimento che ci rende popolo, identità, bandiera, lacrime e sofferenza.

Grazie numero 1. Ti amerò sempre.

Fino alla fine.

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