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Salvini rischia di essere ostaggio di Conte

Salvini rischia di essere ostaggio di Conte

Quando nel salone degli Specchi Sergio Mattarella si congeda dagli ospiti che al Quirinale hanno appena preso parte alla tradizionale cerimonia del Ventaglio, lo fa con un «buone vacanze» che in molti interpretano come la fine ufficiale del tormentone sulla crisi di governo sotto l'ombrellone. D'altra parte, l'ormai celebre finestra elettorale è definitivamente chiusa. E anche se Matteo Salvini continua a evocare l'eventualità di un ritorno alle urne, è altamente improbabile che ciò possa avvenire in autunno. Dal momento dello scioglimento delle Camere, infatti, devono passare almeno sessanta giorni prima che si possa votare. E considerando che è stato lo stesso Giuseppe Conte a dire a chiare lettere che in caso di crisi si ripresenterebbe alle Camere per verificare se ha o no la fiducia, è del tutto evidente che i tempi per andare alle urne entro la prima domenica di ottobre ormai non ci sono. E più tardi è il Colle a escludere le elezioni, perché questo significherebbe non avere un governo nella pienezza dei poteri per affrontare la delicata sessione di bilancio. Sul punto, peraltro, il Quirinale non ha tentennamenti. E l'ha lasciato intendere anche ieri Mattarella, quando ha elogiato la «saggezza» usata nel dialogo con la Commissione Ue per evitare la procedura d'infrazione. La conferma, se mai ce ne fosse bisogno, di quanto sul tema il Colle sia sensibile e, dunque, convinto che in autunno non sono consentiti azzardi. E questo nonostante Salvini abbia fatto sapere al capo dello Stato di non condividere affatto questa linea, convinto che in caso di crisi di governo si potrebbe anticipare una legge di Bilancio «tecnica» come già accaduto con il Def 2018 quando ci fu il passaggio di consegne da Paolo Gentiloni a Conte.

Il governo, dunque, sembra destinato ad andare avanti. Con il consueto gioco delle parti in cui il premier si muove come fosse il garante dell'establishment, mentre i vicepremier si presentano come i tribuni del popolo. Sono i miracoli della comunicazione nell'era dei social, con un esecutivo double face i cui massimi vertici sono allo stesso tempo governo e opposizione. D'altra parte, il ruolo che Conte si sta ritagliando è esattamente quello di garante di questo equilibrio. Nonostante c'è chi abbia voluto leggere nella sua scelta di presentarsi in Senato sul Russiagate un affondo a Salvini, è del tutto evidente che il premier va esattamente nella direzione opposta. Quella di «coprire» qualunque falla nell'esecutivo, che sia la vicenda dei presunti finanziamenti di Mosca alla Lega o l'annosa querelle sulla Tav. E pur di farlo è disposto a incassare in silenzio gli strali di Salvini e Di Maio, esattamente come accaduto ieri quando il ministro dell'Interno gli è passato sopra con la sua proverbiale ruspa. «Le parole del premier mi interessano meno che zero», ha detto sprezzante. Un affondo che in altri tempi e con presidenti del Consiglio politici sarebbe stato sufficiente ad aprire una crisi. Invece Conte ha fatto come al solito buon viso a cattivo gioco. Concavo e convesso alla bisogna. E nell'ennesimo paradosso di questo anno e passa dell'autoproclamato «governo del cambiamento» ci ha tenuto a fare sapere che non avrebbe partecipato all'atteso incontro tra Salvini e Di Maio. Ieri, infatti, i due vicepremier si sono visti a pranzo a Palazzo Chigi dopo settimane di gelo. E il presidente del Consiglio ha pensato bene di uscire a piedi dalla sede del governo per dire ai cronisti che si stava andando a mangiare un sushi in un ristorante lì vicino. Intanto i due si sono confrontati senza la sintonia di un tempo sul Russiagate e sui destini del ministro per le Infrastrutture Danilo Toninelli. «È un disastro, devi chiedergli di fare un passo indietro», ha intimato Salvini all'alleato. «Io non posso farlo perché equivarrebbe a chiedere un rimpasto, roba da vecchia politica», ha aggiunto. Ma non ha ottenuto troppe rassicurazioni da un Di Maio che ha ammesso di non avere «la forza politica» per imporgli le dimissioni.

Nonostante la conflittualità continui, è però vero che le categorie con cui osservare la politica sono molto cambiate in questo ultimo anno e mezzo. E anche quello che prima sembrava impossibile ora è quantomeno plausibile. Ed è anche per questa ragione che, scavallata l'informativa in Senato sul Russiagate e la bomba Tav, la strada del governo potrebbe essere più in discesa di quanto sembra. Soprattutto se Conte continuerà nella sua azione di punching ball di Salvini e Di Maio.

Non è un caso che in Lega ci sia chi teme che il ministro dell'Interno abbia ormai perso il treno per dare il la alla crisi di governo senza lasciarci sopra le impronte digitali. Quello giusto, lo ripete spesso Giancarlo Giorgetti, è passato a febbraio, quando il «no» alla Tav sarebbe stato il pretesto perfetto. Ora tutto è cambiato, perché il M5s è devastato dalla débâcle alle Europee e pur di evitare le elezioni anticipate è disposto a tutto. Perfino, guarda un po', alla giravolta sulla Tav, una delle battaglie fondanti del Movimento. Il rischio, insomma, è che Salvini resti sì leader indiscusso del governo ma anche prigioniero di Conte e Di Maio, a parole pronti magari ad alzare la voce ma nei fatti disponibili a concedergli qualunque cosa pur di conservare la poltrona. Se il leader della Lega avrà l'abilità di usare questa sua forza per imporre davvero l'agenda - ma sulla flat tax c'è un problema di coperture difficilmente superabile - potrà usare questa situazione a suo vantaggio. Se invece - e questo è il timore di alcuni esponenti di punta del Carroccio - finirà impantanato nelle sabbie mobili di un esecutivo congelato il rischio è quello di esaurire la spinta propulsiva. Esattamente come accadde a un altro Matteo più volte evocato da Giorgetti.

«Tenetevi una foto di Renzi sulla scrivania, perché dal 40% a perdere il passo breve», fu il monito del sottosegretario alla presidenza del Consiglio pochi giorni dopo l'insediamento del governo.

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