Cronache

Schettino si difende dalle accuse: ma rischia oltre 20 anni

Francesco Schettino secondo la procura rischia oltre venti anni di carcere per il naufragio della Concordia

Schettino si difende dalle accuse: ma rischia oltre 20 anni

Francesco Schettino affronta la seconda giornata di interrogatorio a Grosseto, nel corso del processo che lo vede imputato per il naufragio della nave. Rischia oltre venti anni di carcere, come sostiene la procura. Lui però si difende con ogni mezzo e respinge ogni accusa, colpo su colpo. La verità di Schettino è questa: lui la manovra sotto il Giglio l’aveva impostata bene e gli sarebbe anche riuscita, ma i suoi ufficiali in plancia non avrebbero compreso che le distanze dagli scogli erano sbagliate e, soprattutto, non lo avvisarono in tempo dell’urto imminente. Al tribunale il compito di accertare come siano andate davvero i fatti.

"Perché non dette subito l’emergenza generale?", gli chiede il pm Alessandro Leopizzi affrontando il tema del ritardato allarme ai passeggeri. E l'ex comandante della Concordia risponde così: "Volevo far arrivare la nave più possibile sotto l’isola, altrimenti se avessimo dato i sette fischi brevi e uno lungo, con le vibrazioni che c’erano state, la gente si sarebbe buttata in acqua" con la nave in alto mare. Si difende in questo modo, Schettino, dalle domande incalzanti del pm che lo accusa senza mezzi termini di non aver attivato subito le procedure di emergenza. E fornisce anche alcune valutazioni tecniche, dicendo di essere sicuro "della galleggiabilità della nave" anche con tre compartimenti motori allagati e che "d’inerzia, con la prora al vento" di grecale "sarebbe tornata verso l’isola". "Ho atteso a dare l’emergenza generale - prosegue - perché sapevo esattamente i tempi di scarroccio della nave, io conoscevo bene la Concordia, volevo fare in modo che la nave si avvicinasse all’isola e poi allora dare l’emergenza generale. Il danno era ormai fatto. Andava mitigato". Il pm insiste molto sul ritardato allarme, ricordando che la nave aveva i locali motore allagati, non aveva più propulsione e il generatore d’emergenza era ko - e quando chiede a Schettino degli annunci vocali rassicuranti fatti dare dal personale ai viaggiatori in preda al panico, il comandante della Concordia risponde sicuro di sé: "L’ho fatto per tranquillizzare le persone, temevo il panico".

A un certo punto Schettino, incalzato ancora dal pm sul ritardo nel dare l'allarme, si lascia andare a una battuta a effetto: sulla nave "io, come comandante, sono il primo dopo Dio". Una frase colorita mentre spiegava come agì, nel suo ruolo di comandante della nave, nelle fasi successive all’impatto contro gli scogli. Ogno decisione spettava a lui, dunque. E su questo non ci piove. Nessuno, infatti, lo ha mai contestato.

"Ferrarini (unità di crisi di Costa, ndr) mi disse 'chiamo io la capitaneria', mentre io feci chiamare la capitaneria di Civitavecchia e do il mio cellulare, sempre nella consapevolezza che la nave rimanesse a galla con tre compartimenti allagati" e "per
chiamare i rimorchiatori". Il pm lo incalza ancora: "Perché a Civitavecchia lei dà il cellulare e non chiede via radio i rimorchiatori, voleva risparmiare sul costo?". E lui: "Perché via radio avrebbero sentito tutti" e comunque "io non ho privilegiato la nave rispetto alle vite umane. Il prezzo l’avrei concordato successivamente. Avrei agito con freddezza una volta che tutti i passeggeri fossero stati in sicurezza". Il pm Leopizzi rileva che la procedura di emergenza prevede di chiedere soccorso via radio. In aula vengono fatti ascoltare alcuni brani intercettati e la telefonata in cui dalla Concordia, su ordine di Schettino, alla capitaneria di Livorno fu detto che c’era soltanto un blackout a bordo: "Non cambiava nulla - risponde il comandante - Già dire che c’era il blackout era motivo di allarme per la capitaneria". Leopizzi a quel punto fa notare a Schettino che tra le accuse che lo riguardano c’è la mancanza di comunicazioni con l’autorità.

"Se Gregorio De Falco non avesse chiamato dalla Capitaneria, lei l’avrebbe dato il segnale di distress?", chiede il pm. Schettino risponde in questo modo: dare il segnale di "distress" (quello che si dà per far intervenire le navi più vicine) nel caso della Concordia sarebbe stato "utile solo formalmente, non da un punto di vista concreto, pratico. Non ci avrebbero mandato certo una nave di appoggio come la Costa Concordia" e "non eravamo in mezzo all’Oceano, lo scenario è diverso". . «Credo di sì - ha risposto - l’avrei dato poco dopo. Sarebbe stato utilissimo darlo ma solo per un fatto formale".

In un altro passaggio dell’interrogatorio Schettino spiega di non aver dato lui l’ordine abbandono "perché seguivo la nave" ma comunque di "averlo disposto" e che in concreto fu dato da Roberto Bosio. "Io ho disposto l’abbandono - ha ricostruito -. Stavo seguendo lo scarrocciamento della nave perchè temevo che le scialuppe di destra andassero sugli scogli. L’ha fatto materialmente Bosio, io ero sull’aletta e lì non c’era microfono. Ho detto a lui di farlo". Schettino aggiunge di aver temuto che la poppa si avvicinasse troppo alla costa e di aver dato ordine che l’ammaino delle scialuppe iniziasse da poppa.

"Dissi di mettere le scialuppe a mare per indorare la pillola - dice a un certo punto Schettino -. Era una mia insistenza psicologica, un mio pensiero determinante, che avevo in quel momento. Non volevo dire né all’equipaggio né ai passeggeri le parole abbandonare la nave, una frase che avrebbe aumentato la tensione". L'ex comandante aggiunge poi che "dire 'abbandonare la nave' è una frase che lascia spazio a una libera interpretazione, anche ora non so come avrebbe potuto essere interpretata, considerato pure che a bordo c’erano persone di diverse nazionalità. Temevo il panico - ribadisce - e che la gente si gettasse in mare aperto". Schettino aggiunge che "i 600 crocieristi saliti a Civitavecchia ancora non erano stati addestrati" col breve corso previsto per i passeggeri a bordo per renderli edotti delle misure da

538em;">osservare in caso di emergenze.

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