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Semenya, gli ormoni sballati e i diritti delle sue avversarie

Semenya, gli ormoni sballati e i diritti delle sue avversarie

È una triste vicenda di diritti negati. Un frontale dell'etica e dello sport. Uno scontro fra mondi diversi che non lascia superstiti. Perché da una parte c'è il sacrosanto bisogno di distinguere fra giusto e ingiusto per noi, per voi, per l'uomo, per la donna, per l'uomo che si sente donna, per la donna che si sente uomo, per chi non è l'uno e non è l'altro e chi è tutte e due. E perché dall'altra parte, nello sport, giustizia e ingiustizia vivono invece di regole diverse, ognuna figlia della prima e più importante: che la sfida sia a parità di condizioni. È una triste vicenda di diritti negati perché da una parte c'è una donna che non avrà più il diritto di gareggiare con le donne e dall'altra ci sono splendide atlete che per anni non hanno avuto il diritto di vincere; e anche se ora è stato ristabilito, chi darà loro indietro forza e giovinezza per riprovarci? Per cui, quale diritto è stato leso di più? Il loro di sfidarla e sfidarsi ad armi pari o quello di Caster Semenya che non potrà scendere in pista così com'è e correre con le colleghe ai prossimi mondiali, che per farlo sarà costretta ad assumere dei farmaci per ridurre il livello di testosterone, ma che in tutti questi anni ha vinto e si è arricchita sfruttando un corto circuito tra etica e sport? A Rio de Janeiro, tre anni fa, una biondina canadese, Melissa Bishop, aveva commosso lo stadio e il mondo. A metà del secondo giro degli 800 metri olimpici si sbracciava, si sforzava, le sue gambe lunghe e allenate la stavano facendo volare, intanto lei frullava velocità, sembrava un fuori giri fisico, come se non avesse più il controllo di sé e degli arti, non ne poteva più. Fu tutto inutile. Arrivò quarta. Fece persino il proprio personale, record del Canada. Medaglia di legno. Niente podio, niente gloria. L'oro andò a Caster Semenya, l'argento a un'atleta come lei, Francine Niyonsaba, del Burundi, il bronzo a un altra ottocentista iperandrogina, Margaret Wambui, del Kenya. Quel podio fu un diritto negato per Melissa. La decisione della Federatletica mondiale confermata ora dal tribunale sportivo è un modo sofferto e tardivo per fare chiarezza, ma sa di illusione, di abracadabra normativo pronto a svanire appena una di queste atlete la impugnerà. Le associazioni per i diritti sono già sul piede di guerra.

Però non per i diritti di Melissa e le sue sorelle.

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