Cronache

La sinistra e il miraggio del '77 che portò agli anni di piombo

Il movimento idealizzato dai nostalgici della rivolta era forse il sogno di un mondo migliore. Ma ha generato incubi

La sinistra e il miraggio del '77 che portò agli anni di piombo

C he cosa fu il Settantasette, adesso che sono passati quarant'anni? Qualcuno l'ha definito «l'ultima foto di famiglia della sinistra tutta», altri «lo spartiacque dopo il quale l'Italia non sarebbe stata più la stessa». Ieri, sul Corriere della sera, il fisico Carlo Rovelli, in un articolo molto partecipe, come spesso avviene quando si ripensa alla propria giovinezza, lo ha identificato nella voglia luminosa di cambiare il mondo. «Eravamo in tanti a crederci» scrive e questa idea di «un mondo migliore» rischia un po' d'assomigliare al refrain di una canzone-cult fine anni Sessanta di Gianni Morandi, con relativi comandamenti per, appunto, «un mondo d'amore», che è poi la stessa cosa...

Ora, cercando di restare con i piedi per terra e uscendo da una rovelliana visione epocale per cui la Contestazione e dintorni, i Sessanta e i Settanta, insomma, può nei desideri e nelle speranze fare il paio con la Rivoluzione francese o l'ascesa del Cristianesimo, sarà più prudente dire che ciò che nel '77 andò in frantumi furono la politica, gli schieramenti, i militanti, i partiti. In questo fallimento c'è però un elemento paradossale che, allora come oggi, è alla base dell'impasse in cui versa la Sinistra italiana, para, post o ex comunista. È il rifiuto di vedersi come forza di potere, di crogiolarsi nell'idea di essere opposizione, la sottolineatura di appartenere a una minoranza intellettuale, frutto di una visione alternativa, che era però di fatto maggioranza culturale in grado di decidere mode, plasmare coscienze, pianificare carriere. Tutto ciò si traduceva da un lato in un'assenza di discriminazione da parte del sistema vigente, curiosa per chi se ne riteneva l'avversario deputato, dall'altro nel rifiuto di ogni responsabilità, che significava godere dei diritti di una società liberal-democratica senza però sottostare ad alcun potere.

Questo comportamento schizofrenico faceva parte di un sentimento comune. I professori di liceo potevano contestare la loro scuola e però esserne i presidi, i giornalisti dalla prosa rivoluzionaria potevano contare nella successiva assunzione presso la stampa «reazionaria», i mazzieri delle manifestazioni contro il bieco capitalismo li ritrovavi manager di una multinazionale o di un'azienda, spesso quella paterna. Gli esempi potrebbero continuare, ma eguale rimarrebbe questa sensazione di «diversità», questo retrogusto fatto dell'idea di avere comunque «resistito», di essere stati, comunque, all'opposizione. Ancora oggi chi proviene da quella sinistra continua a ritenersi uno e bino, esercita il potere, ma non se ne vuole assumere le responsabilità.

Nel '77 questa logica binaria «di lotta e di governo» entrò per la prima volta in cortocircuito, e ciò che successivamente è stato rimesso con fatica in piedi non è altro che la sua caricatura. L'Italia aveva allora un suo languore orientale, una capacità di disfarsi senza però crollare di colpo. Era un Paese che aveva creato il connubio più straordinario, quello di un popolo con tutti i miti cari a una società dei consumi e capitalista nei fatti e con una dittatura culturale orientata verso il sistema opposto, creando così una strana figura che era per il collettivo, ma sfruttava il privato, disdegnava gli sprechi, ma ne faceva un grand'uso, leggeva Lenin e «Linus» con assoluta interscambiabilità. Così, in una decadenza senza tregua, ma quasi inavvertibile, la rivoluzione non arrivava, ma la reazione non esisteva: il fallimento marxista e lo sfascio democratico marciavano di pari passo ideologicamente, ma si sostenevano reciprocamente. Non potevano fare a meno l'uno dell'altro.

Il primo cortocircuito fu il terrorismo, che infatti affondò le sue radici proprio qui. Il dramma dei terroristi è che avevano già vinto, lo Stato non esisteva più, ne esistevano soltanto i residui passivi. Ma all'ideologia vincente non era corrisposto un cambiamento politico totale: in trent'anni di lenta fornicazione con il potere e di lenta collusione con l'avversario, si era anch'essa adattata. Tutte le parole d'ordine della Sinistra avevano raggiunto, bene o male, il loro obiettivo, però arrivate a quel punto si erano fermate.
Il terrorista si ritrovò così a essere il professionista che aveva preso sul serio la lezione sullo Stato da abbattere e non da cambiare, l'innamorato del cambiamento sanguinoso di una società che nessuno in realtà voleva cambiare, perché andava benissimo com'era, demagogica e violenta, a volte repressiva, ma sempre sbracata, dove i primi a non credere nelle istituzioni erano i garanti delle stesse. La sua immagine faceva parte di un «album di famiglia» e questo gli garantiva un calore diffuso se non di consenso certo di comprensione: e tuttavia questo album andava solo sfogliato. Se diveniva realtà, la logica binaria «di lotta e di governo» andava a farsi benedire.

Il successivo corto circuito venne dalla contestazione giovanile, gli «indiani metropolitani», la «Generazione dell'anno IX» - come venne definita datandole la nascita al 1968 -, il Settantasette, insomma. Nella rivolta contro baroni universitari e leader sindacali, non c'era soltanto la violenza di chi si voleva mettere fuori dalle regole, c'era soprattutto il disprezzo verso quelle figure che in anni lontani avevano promesso «radiose primavere di lotta» e adesso blateravano di «difficili autunni di sacrifici». Tramontava un mito e non ne rimaneva che la caricatura da atrocemente sbeffeggiare. La contestazione del sindacato, Lama cacciato dall'università di Roma, significò il no alla «nuova polizia», al «blocco d'ordine» tra grande industria del Nord e forze operaie, alla pretesa di coprire ogni cosa con enfatici appelli alla solidarietà, al tentativo di bandire un nuovo-antico esorcismo tale da far passare per «fascista» tutto e tutti.

Questo spiega perché, fallito il tentativo di farsi garanti e moderatori della contestazione, comunisti e affini decisero di esserne i becchini. Fu una tipica situazione di rivolta di figli contro padri, o, meglio, contro padri putativi. Quei ragazzi non volevano più sentirsi fare la predica da una classe dirigente che non aveva il pudore delle proprie vergogne, né tantomeno erano disposti ad accettarla da quella forza di «opposizione» che dimostrava, una volta di più, la tendenza a essere totalitaria, a organizzare e massificare ogni cosa dietro il fantasma del partigiano o quello del meccanico in tuta.

Chiedersi il perché quella contestazione fallì, è una domanda ingenua. Ci sarebbe casomai da domandarsi come poté attecchire, per un certo tempo, una risposta generazionale priva di un effettivo retroterra culturale, più portata a banalizzare che a costruire. A distanza vennero fuori le crepe di un'alternativa generosa, ma sterile, nel momento in cui, di fatto, la sua capacità di uscire da una formula e un progetto dimostratisi fallimentari risultava legata non a una profonda revisione ideologica, ma a una sorta di reazione da amante tradito, ma pur sempre innamorato. In altre parole, la giovane Sinistra di quell'epoca, per poter essere opposizione contro qualcosa e/o qualcuno dovette mimare al suo interno la stessa logica binaria che all'esterno aveva portato la vecchia Sinistra alla condivisione del potere. L'antagonismo come patologia del comunismo, para, post o ex che dir si voglia. Il continuare a chiamarsi fuori e l'esserci, invece e comunque, dentro sino al collo. Non se ne uscì allora e, visti i fatti di questi giorni a Bologna, non se ne esce adesso.

Può però darsi che chi lì trasforma le biblioteche universitarie in cessi pubblici lo faccia pur sempre nel nome di «un mondo migliore» e così Rovelli può tornare felicemente a occuparsi di fisica.

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