Referendum sulle Autonomie

La sinistra snobba lo "ius autonomiae"

La sinistra snobba lo "ius autonomiae"

Quando Carlo Cattaneo - padre nobile del federalismo - sosteneva che «ogni popolo deve sempre tenere le mani sulla propria libertà», non poteva presagire che lo avrebbe fatto con un dito sul tablet. Così come non poteva presagire che il primo passo in chiave autonomista dell'Italia unita sarebbe stato accolto dalla sinistra con un mix di astio e malafede.

Di fronte al «big bang» lombardo-veneto, infatti, è una corsa a gettare ombre e a paventare cataclismi. «Vince la protesta», titola La Stampa. Scandaloso egoismo, lo definisce Furio Colombo sul Fatto. Si parla di scontento e secessione mascherata. Tutti concordi nel dipingere i 5 milioni di votanti come un'orda meschina votata al denaro, al dialetto e al voto leghista. Eppure c'è stato un tempo in cui un esponente del socialismo meridionale come Gaetano Salvemini lottava per un federalismo «economicamente utile alle masse del Sud e moralmente utile a tutto il Paese». È la metafora dei vagoni del treno che viaggiano tutti più spediti se la locomotiva non ha i ceppi alle ruote. Nel frattempo, però, per la sinistra gli appelli autonomisti in Italia sono diventati brutti e cattivi (all'estero no, dalla Catalogna al Kurdistan fino al Chiapas hanno tutti diritto a ribellarsi). La locomotiva ora fa schifo, inquina, è classista.

Ma cosa spinge un partito come il Pd a schierarsi più o meno esplicitamente contro una riforma che porterebbe più efficienza e «federalismo delle intelligenze umane» e a difendere di fatto il clientelismo e l'assistenzialismo, cancri del Sud? Semplice, certa sinistra ha perso il contatto con il Paese, si confina in rassicuranti parole d'ordine tipo «solidarietà» e trova più semplice derubricare a propaganda ogni istanza che provenga da altri lidi politici, alimentando da sé la propria secessione dal reale.

Alle urne domenica sono andati molti elettori di sinistra che detestano Salvini, ma che sanno distinguere l'idea - buona o cattiva - da chi la propone. Persone di buon senso che da decenni leggono statistiche (numeri, non pareri) su Irpinia, Banco di Napoli e baby pensionati e che semplicemente chiedono di cambiare verso. Anche basta col buonismo. Come gli studenti bravi a scuola che vorrebbero solo andare avanti col programma: continueranno a far copiare i compagni che non prendono la sufficienza, ma non vogliono fermarsi e perdere tempo. Per gli altri ci penserà la maestra di sostegno del Welfare. Ecco, tra questi elettori ci sono anche quelli che nei sondaggi si dicono contrari allo ius soli perché trovano giusto accogliere e integrare, ma sbagliato regalare la cittadinanza. Ascoltarli sarebbe la missione della politica, ma si preferisce commentare con disgusto che il Paese è xenofobo e «non è pronto». No, a non essere pronta è la sinistra che volta la testa. E che solo ora coglie quanto seria e sentita sia la voglia di ius autonomiae, ovvero la richiesta sistematicamente ignorata di più responsabilità e più fondi in nome della meritocrazia civica.

Perché l'autonomia - senza l'antistorico folklore padano - è l'unica chiave di sopravvivenza dell'Europa. In un contesto socioeconomico globalizzato, tutti hanno capito che non esiste spazio per il ritorno alle micronazioni. Nessuna Catalogna può sopravvivere a uno strappo, perché in un attimo le fonti di ricchezza (le imprese) se ne andrebbero a far ricca qualche altra regione. Al contrario, esiste una via per le comunità autonome, dove i cittadini si sentono meno alienati dalla burocrazia e più coinvolti nella cosa pubblica («le mani sul potere»). Non monadi ma molecole.

Insomma, può darsi che il referendum non fosse necessario, che non siamo nell'Unione Sovietica di Breznev dove il Politburo decideva pure che diserbante usare. Di sicuro il Carroccio lo cavalcherà elettoralmente. E forse c'è anche il rischio che non serva a molto se chi lo ha promosso non sarà all'altezza dei sentimenti di «poesia di unione e passione di separamento» che ha evocato, come già successo con la prima Lega che tradì il federalismo. Ma ha un merito: ha fatto riecheggiare una voce costruttiva al tempo dei «vaffa» indistinti e delle apatie disilluse, e lo ha fatto con il voto e non con cortei o blog.

Peccato qualcuno non sia più abituato ad ascoltarla.

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