Cronache

Dalla Siria in Italia, con i corridoi umanitari

IlGiornale.it è andato a conoscere le storie di alcuni dei 93 rifugiati siriani arrivati in Italia da Beirut attraverso l'iniziativa dei corridoi umanitari

Dalla Siria in Italia, con i corridoi umanitari

In fuga dalla guerra, con alle spalle storie di difficoltà e malattia, hanno lasciato case e vite distrutte e qui, vogliono ricostruire il proprio futuro. Sono i rifugiati siriani arrivati in Italia dal Libano attraverso il primo dei corridoi umanitari promossi dalla Comunità di Sant’Egidio, dalle Chiese Evangeliche e dalla Tavola Valdese, realizzati in collaborazione con il ministero degli Esteri e dell’Interno e definiti giovedì dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, “un modo per osservare la nostra Costituzione, le carte sui diritti dell'uomo e i principi umanitari della convivenza", con cui l’Italia “si conferma all'avanguardia nell'accoglienza ai migranti”.

Con i corridoi umanitari, infatti, arriva in Italia chi ha veramente bisogno di aiuto, vengono garantiti i controlli e la sicurezza sulle persone che, selezionate attraverso una rete di associazioni e volontari dislocati nei Paesi d’origine, entrano nel nostro Paese regolarmente, con un visto di tipo umanitario. La selezione viene effettuata in base alle condizioni di vulnerabilità dei soggetti e delle famiglie, segnalati dai volontari sul territorio, come quelli della Comunità Giovanni XXIII, che vivono nel campo profughi di Tel Abbas, in Libano, dal quale provengono la maggior parte dei rifugiati arrivati questa settimana. Per questo il sistema dei corridoi si candida a diventare un modello alternativo nell’accoglienza dei rifugiati per tutto il continente europeo, per scongiurare le morti in mare e contrastare i trafficanti di esseri umani. Una volta giunti in Italia, le associazioni pensano inoltre alla sistemazione e all’integrazione dei rifugiati, mettendo a disposizione corsi di lingua italiana e di formazione al lavoro. Il tutto finanziato autonomamente, con collette e donazioni. Il Giornale.it ha incontrato alcuni dei 93 rifugiati siriani atterrati martedì all’aeroporto di Fiumicino, con il primo corridoio umanitario proveniente da Beirut, nella Scuola di Lingua e Cultura Italiana della Comunità di Sant’Egidio, che offre lezioni gratuite, grazie al lavoro dei volontari, a migranti e richiedenti asilo e che, attualmente, è frequentata da circa 1.700 studenti.

Da Homs in Italia per curare Falak: “vogliamo ricostruire la nostra vita qui”

Suliman faceva l’informatico ad Homs, in Siria. Sua moglie Yasmin si occupava dei bambini, Falak e Hussein, e ogni tanto dava lezioni private di inglese. Poi è arrivata la guerra. Nel 2012 la loro casa è stata ridotta in macerie da un missile governativo e per un anno sono stati costretti a vivere nell’aula di una scuola. Poi, hanno deciso di fuggire a Tripoli, in Libano, dove passano due anni e mezzo in un garage, preso in affitto. Nel frattempo Falak, che ora ha sette anni, si ammala. La piccola ha un tumore all’occhio sinistro, e i genitori riescono a farle fare una prima operazione a Beirut, ma, da sola, non sarebbe bastata a curarla. Così, grazie alla segnalazione di due volontarie a Beirut, la famiglia di Suliman è diventata la prima famiglia siriana a beneficiare dell’iniziativa dei corridoi umanitari. Sono arrivati in Italia il 4 febbraio. Falak ha subito fatto una seconda operazione all’occhio e ha iniziato un ciclo di chemioterapia all’ospedale Bambino Gesù di Roma, ed ora, va già molto meglio, assicura la mamma. E Falak ha imparato, tra un album da colorare e l'altro, anche qualche parola di italiano. “Ci hanno dato tutto quello che ci serve, un posto dove dormire e tutto il necessario per vivere”, racconta Yasmin, “ad Homs la situazione era difficilissima, non c’era sicurezza e tutto era distrutto, i nostri familiari che sono rimasti lì ci raccontano che non c’è elettricità e il cibo continua a costare tantissimo”. Yasmin spiega che se non ci fosse stata la possibilità di arrivare attraverso i corridoi umanitari, probabilmente sarebbero rimasti in Libano perché con due bambini piccoli affrontare il mare sarebbe stato troppo pericoloso. “Appena finirà la terapia vorremmo che Falak inizi la scuola, vorremmo trovare un lavoro, speriamo in una vita tranquilla e in un futuro sicuro per i nostri bambini”, spiega la donna, “non vogliamo tornare in Siria, perché, anche se finisse la guerra, lì ormai non abbiamo più nulla”.

Nakhle e la sua Siria distrutta nel nome delle “primavere arabe”

Del primo nucleo di rifugiati arrivati a Fiumicino, provenienti per la maggior parte dal campo profughi di Tel Abbas, in Libano, l’80% sono musulmani. Tra loro però c’è anche qualche cristiano, come Nakhle Abboud, 29 anni, originario anche lui di Homs, in Siria. “Ho vissuto per 24 anni in pace”, racconta, “poi sono iniziate ad arrivare persone strane nel nostro Paese, che nel nome di Dio, della rivoluzione, dell’Islam, di al Qaeda e di molte altre cose, hanno cominciato a fare delle richieste al governo: ma il governo non voleva parlare con i terroristi e così è arrivata la guerra”. Nakhle lascia Homs nel 2011, all’inizio degli scontri tra governo e ribelli, per trasferirsi a Damasco, dove la situazione era più sicura e dove, per un periodo, trova lavoro come arbitro di pallacanestro. “Ho lasciato la mia casa quando i ribelli hanno cominciato ad urlare ‘Allah Akbar’, ad usare i fucili”, ci dice, “quando gli islamisti, quelli dell’Esercito Libero, hanno iniziato ad uccidere le persone dicendo di essere del governo, facevano delle foto ai cadaveri e le mandavano ad al Jazeera, ad al Arabiya, dicendo: guardate, il governo uccide i suoi cittadini”. “Hanno distrutto la Siria nel nome delle primavere arabe”, afferma Nakhle. “Prima della rivoluzione la nostra vita era normale”, spiega il ragazzo, “ad Homs c’erano 300.000 cristiani, avevamo tutti i diritti, ora ce ne saranno un migliaio”. Ci dice che ama la Siria, e gli chiedo, infine, se pensa di tornare, un giorno, nel suo Paese. “Vorrei che la guerra finisse, e quando finirà ci penserò”, dice Nakhle, “i miei genitori sono ancora ad Homs, e per questo probabilmente ritornerò, ma per ora non è possibile tornare".

"Ho 29 anni", dice, "e vorrei costruire un futuro per me, qui”.

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