Cronache

Torna l'incubo tsunami È strage in Indonesia

«L audato si', mi' Signore, per sor'aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta». Francesco, il santo di Assisi, nel suo Cantico delle Creature nulla poteva immaginare dei tifoni che avrebbero sconvolto il mondo. Perché sorella acqua, con frate vento, dimentica di essere utile, umile e preziosa e, allora distrugge case e chiese, sconvolge i mari, cancella (...)

(...) vite di donne e uomini e bimbi strappati con violenza inaudita, feroce, plateale e maledetta e il Cantico non trova più creature alle quali rivolgersi. Dove è Dio? Sì, è giusto scrivere questa domanda difficile che trova una risposta facile ancora in Francesco.

«Laudato si', mi' Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a·cquelli ke morrano ne le peccata mortali». Le immagini che arrivano dall'Indonesia, uguali a quelle del 2004, tra le campane che suonano la vigilia di Natale, i mercatini, gli alberi addobbati, le vetrine abbaglianti, sta arrivando la fine dell'anno, arriva, invece la fine dell'esistenza. Suonano i musicanti sul palco, la folla ignara, canta e balla, mentre l'onda malvagia si avvicina e, travolge ogni cosa, ogni essere, smentisce le speranze e sveglia i sogni, compiendo il proprio spettacolare sfregio alla vita. Duecento forse trecento e più morti, sono un numero arido che non rende il senso vero, straziante di quella tragedia. Come gli spaventosi 260mila scomparsi il giorno di Santo Stefano del 2004 a Sumatra e nel resto di quelle terre davanti all'Oceano Indiano, una fetta del mondo portata via per concedere all'uomo la possibilità di scriverne sui libri e di crearne un film. O i 60mila del terremoto di Messina, il 28 dicembre 1908, in una terra che porta ancora, dopo oltre un secolo, le ferite miserabili e vergognose delle baraccopoli, in sei quartieri della città.

La natura non ha e non rispetta i calendari, si ribella e si scuote senza lanciare avvisi e allarmi. Dicesi Tsunami. La nostra infanzia e la nostra adolescenza non conoscevano nemmeno questo termine giapponese che significa, letteralmente, l'onda contro il porto. Sapevamo degli uragani e dei tifoni, dei maremoti e dei tornado, quasi facevano parte di una letteratura fantastica, di mondi e tempi lontani, al massimo cinematografici. Ci raccontavano dell'eruzione del vulcano Krakatoa, il cui boato fu avvertito a 5mila chilometri di distanza e fu il più grande mai udito dall'uomo. Sembravano favole o pagine dei libri di Salgari. Oggi qualunque pioggia, qualunque cielo nero provoca uno stato di ansia ingiustificato e scatta l'allerta meteo di uno tsunami. È la nostra pelle arrossata da quelle immagini in diretta, non più narrazioni e leggende antiche e lontane, ma una realtà tremenda, l'apocalisse adesso. Sotto quelle macerie respirano ancora corpi di infanti e di anziani, la festa del Natale, i veglioni di San Silvestro diventano appuntamenti inopportuni, fastidiosi mentre altrove è morte, è disperazione. È una processione di parole, mentre a Giava e tutt'intorno si scava a mani nude, alla ricerca di un'ultima voce, di un'ultima speranza che l'Altissimo Onnipotente possa, voglia e sappia fermare sorella acqua e frate vento. Restano le preghiere. Non c'è più senso per gli auguri.

Tony Damascelli

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