Politica

Tutti gli errori della politica

Il primo dovere di una democrazia è garantire la sicurezza dei propri cittadini

Tutti gli errori della politica

I sondaggi di Renato Mannheimer già ci avevano avvertito. Il primo sentimento che occupa la mente degli italiani è la preoccupazione per la sicurezza.

Dopo i fatti di Monaco, nella loro oscurità sanguinosa, è evidente che la politica ha il dovere di trasmettere altre parole oltre a quelle sul referendum, un sentimento positivo, non solo demolitivo. Discorsi semplicemente leali, che colmino la distanza spaventosa che oggi corre tra le preoccupazioni di chi entra in una stazione ferroviaria, in una spiaggia affollata, rispetto a chi attraversa l'uscio di una riunione di partito. Un compito difficilissimo ed elementare, che cominci dall'onesto riconoscimento dei fallimenti delle politiche di sicurezza finora intraprese da tutte le democrazie occidentali.

Ricordiamolo: il primo dovere di una democrazia è garantire la sicurezza dei propri cittadini. Il patto sociale si regge sulla cessione tua e mia dell'uso della forza e della giustizia allo Stato e alle sue polizie e magistrature; la politica gestisce questo scambio, obbedendo al mandato ricevuto dal voto. Non c'è altra strada rispetto a questo patto: il resto si chiama dittatura o anarchia, ordine da cimitero o disordine da macelleria.

Alla politica, ripeto, tocca ridare credibilità a questo patto, cioè allo Stato, che dia a tutti noi una qualche garanzia di non venire fatti a pezzi come a Nizza o come a Monaco.

Ora questa sicurezza non c'è più. E rischia di saltare il patto, perché la controparte dei cittadini non solo non è in grado di rispettare il contratto, che, di questi tempi, appare un'utopia, ma è distantissima con la testa, con le parole, con i modelli applicati, dal tutelare gli individui comuni. Non ci sono recinti sicuri. Il nemico spunta oltre le difese dei muri e delle barriere, è già dentro mentre la polizia sorveglia le entrate. Fallimento prima, e fallimento dopo, nella incapacità di lettura rapida degli eventi.

Vedasi anche Germania e Merkel. Tutta questa potenza, spie elettroniche che incamerano immagini a miliardi dappertutto, come a Nizza così a Monaco, ma servono solo a filmare la morte e una totale inettitudine di polizia, intelligence, analisi politica. Anzi, c'è stata moltiplicazione del terrore: con la chiusura totale di Monaco, delle autostrade intorno, decine di milioni di persone serrate nel terrore, sospetti in fuga armati inesistenti, quando tutto si era in realtà chiuso in un amen.

Se Bruxelles, Berlino, Parigi e Roma avessero approntato un modello di sicurezza basato sulla conoscenza, e sull'impiego della tecnologia e degli algoritmi non solo sulle banche e sul debito ma sulle telecamere che immagazzinano tutto, non saremmo a questo punto. E non ci toccherebbe assistere alla corsa impotente di poliziotti armati e sibilare di sirene per rincorrere fantasmi. Era successo tutto in poco tempo, tutto era stato filmato, ma è mancata la capacità di interpretare e di agire, mentre la politica della sicurezza è stata finora un moltiplicarsi di slogan e di riservisti che servono all'occhio ma non certo nei fatti.

E la gente impreparata, convinta che il suo compito sia solo di sistemarsi nel guscio protetto delle forze dell'ordine, quando invece dovremmo tutti essere educati come in Israele, dove se qualcuno tira fuori un coltello o una pistola, forse si può morire, ma di certo il terrorista non ha scampo.

Questo ha consentito ai siti jihadisti, prima ancora che fosse chiara l'identità ideologica degli assalitori, di esultare e gonfiare le penne di uccellacci schifosi quali sono. Come avvoltoi i seguaci del Califfo si appropriano e si nutrono dei cadaveri di tranquilli turisti in festa sulla Promenade des Anglais o di acquirenti dei panini economici a McDonald's, seduti ai tavolini o in fila per le patate fritte, nel centro commerciale Olympia.

Ai morti e ai loro familiari importa poco il motivo della strage di Monaco o di quella di Nizza. Ma abbiamo il dovere di constatare che il terrorismo islamico è riuscito a generare mostri con la sua potenza spaventosa di adorazione della morte.

Ha reso il terrorismo un sostantivo, e quasi quasi l'unico atto politico importante accessibile a chiunque, basta un camion, oppure un fucile. Sia l'attentatore islamico, oppure no, comunista, nazista, paranoico, emulativo.

Questo rende più necessario sradicare la gran madre di tutti i terrorismi di oggi: il disprezzo della vita altrui, l'adorazione della morte che ha la sua sorgente piaccia o no nel Corano.

Una politica della sicurezza che parta dalla «conoscenza». Delle origini culturali, religiose, sociali, e che sia capace di usare le tecnologie, investendo lì.

La politica ha questo compito. Ha anche un altro dovere. Accorgersi che in noi, gente comune, popoli devastati dell'Europa, qualcosa di buono e forte resiste.

Infatti, anche se ogni giorno ci aspettiamo accada qualcosa di orribile, la frequenza di questi atti, la loro apparente casualità di luogo, mezzi di morte, bersagli riesce ancora a meravigliarci. In questa distanza tra ciò che vediamo e ciò che speriamo per tutti, anche per chi non conosciamo e per cui sentiamo dolore vedendolo riverso, sta lo spazio di una rinascita.

In questo luogo di non-disperazione, di non-rassegnazione sta il grande spazio di una vita buona che, alla faccia di tutti i terrorismi, possiamo riaffermare, ricordandoci di chi siamo, del bene che portiamo ai nostri cari, ma anche agli sconosciuti che incrociamo per strada. La politica se ne occupi. Non solo referendum.

La palese inadeguatezza morale e pratica (l'assenza di magnanimità e forza di decisione) dei vari leader di governo nazionali e internazionali chiede altri leader di popolo. Non sognatori delle carrozze e delle zucche fatate di Cenerentola, ma gente serena e lungimirante. Che indichi prospettive di luce dopo la tempesta e di solidi ormeggi durante l'uragano.

Renato Farina

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