«Cucina sartoriale e la città dall'alto Ecco la mia Asola»

«Cucina sartoriale e la città dall'alto Ecco la mia Asola»

«Vulcanico. Estroso. Istintivo. Propongo una cucina internazionale, riconoscibile, onesta». Firmato: Torretta. Matteo Torretta, il gigante buono che domina la città meneghina dall'alto della sua creazione, l'Asola, ristorante con cucina sartoriale (copyright Claudio Zaccardo, uno dei tre fratelli, i patron del palazzo Bryan Berry in piazza San Babila angolo Via Durini, a Milano dove al 9º e 10º piano si trova il ristorante). È uno dei posti più chic del momento, lo dimostra il fatto che ci sono 70 posti all'interno più altri 45 fuori, eppure non bastano, perché la gente ha fame di curiosità, vuole essere stupita, vuole godere mentre assaggia i piatti di Matteo, vuole guardarlo e ammirarlo all'opera nella sua cucina a vista, copiata pari pari da quella vista al ristorante di Robuchon a Parigi, nel Sant Gemain, il famoso Atelier, in via Montalembert. All'ora di pranzo va per la maggiore il menu business, che detto così suona un po' triste, banale e scontato. Le proposte invece sono invitanti, ogni giorno tre nuove idee da non perdere, così come il menù sorpresa, cinque portate a mano libera dello chef e cinque calici di vino abbinati. È istrionico, carismatico, in continuo movimento, è il Gordon Ramsey della penisola, sprizza entusiasmo ed energie infiniti, si agita, spiega, dirige, gestisce, si vede che si sente a casa sua. Ed è proprio da qui che cominciamo.
Chef, la sensazione è che Asola sia il suo habitat, la sua casa...
«Assolutamente. È il mio progetto, è esattamente come lo sognavo, in più guardo Milano dall'alto, impossibile chiedere di più: l'architetto Luca Cuzzolin è stato straordinario».
Perché ha voluto un ristorante come quello di Robuchon?
«Nel 2002, appena finito il militare, sono andato a Parigi, rimanendo a bocca aperta davanti al suo ristorante Atelier, è stato il primo ad abbattere le barriere fra chef e clientela. Da Asola ci si sente esattamente come là, la famiglia Zaccardo è venuta con me a Parigi, studiando in ogni dettaglio il locale di Robuchon».
Rimanendo al capitolo chef, la sua vita è stata marcata soprattutto dal periodo passato da Martin Berasategui.
«Ci andai nel 2007. Ricordo come se fosse oggi: mi presentai alle undici di sera, vidi questa cucina enorme di 600 metri quadri, il servizio stava per finire, lui era lì assieme ai suoi 60 cuochi. Dissi “Ciao, sono Matteo Torretta”. Mi invitò a bere un gin tonic e poi mi fece dormire nella foresteria, dal giorno seguente ero alle sue dipendenze. Mi mise ad occuparmi dei secondi di pesce, il capo partita era un italiano che dopo tre mesi se ne andò a Tenerife e così diventai io il boss. Tempo un altro anno ed ero lo chef creativo. Lì ho imparato la metodologia del lavoro, l'importate dell'organizzazione; lui gestisce tutto con un carisma pazzesco; persona straordinaria, chef monumentale».
Qual è il così detto signature dish, ovvero il piatto che ti rappresenta in maniera totale?
«Le linguine di Gragnano aglio olio e peperoncino su fonduta di parmigiano e zenzero, poi le capesante in nero, l'idea, e ovviamente i sapori, piacciono un mondo alla gente, così come i dolci dove i meriti vanno tutti a Galileo Reposo, un pasticciere con i fiochi (provare la “cromologia di bianco” per credere, un dessert sublime)».
Il complimento più bello che ti hanno fatto da quando avete aperto?
«Gli applausi di Oscar Farinetti».
Andresti in televisione?
«Ci sono già stato, mi sono divertito e vorrei tornare con un programma sulla street food. Ma solo alle mie condizioni, perché gli altri programmi hanno qualcosa di non definito, la gestione deve essere affidata ad uno chef, non ad un uomo della tv. Gordon Ramsey ha rotto i meccanismi della tivù classica, è uscito dagli schemi, gli altri invece no».
Una tendenza estera che ti piacerebbe riproporre e sviluppare in Italia?
«La nuova bistronomia francese».
Un ristorante recentemente aperto che ti ha lasciato a bocca aperta?
«41 gradi, quello di Adrià, a Barcellona».
Il piatto migliore che hai mai assaggiato?
«L'anguilla caramellata e il foie gras di Martin Berasategui.

Poi il carciofo di Andoni Luiz Aduriz e il wafer di Mauro Uliassi».

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