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«Il culatello “americano”? Non è concorrenza sleale»

«Il culatello “americano”? Non è concorrenza sleale»

Fuoco ad alzo zero di Coldiretti su Simest, colpevole, secondo l’associazione di imprese agricole, di finanziare negli Stati Uniti produzione e distribuzione di prodotti alimentari di altri Paesi, facendo concorrenza sleale agli omologhi in tricolore. Presunta pietra dello scandalo, la salumeria Rosi a New York del gruppo Parmacotto, partecipato dalla merchant bank pubblico-privata (con il governo azionista per il 76%) a seguito di un recente investimento di 11 milioni, pari al 16% del capitale societario del produttore di salumi: un’iniezione di liquidità volta al potenziamento della struttura produttiva in Italia e a sostenere il processo d’internazionalizzazione, nel quadro di un piano industriale quinquennale di sviluppo che prevede una spesa di 16 milioni. Ma cosa ci fanno nello store aperto nella Grande mela dall’italianissima Parmacotto la bresaola uruguaiana, la finocchiona e il culatello made in Usa? «Sono prodotti - spiega il presidente Marco Rosi, che tiene a spegnere una volta per tutte le polemiche - acquistati in loco perché le autorità americane non consentono l’importazione degli analoghi salumi nostrani. Che non sono disponibili, e dunque non può esserci alcuna concorrenza sleale».
Difatti, ai produttori nazionali è permesso esportare Oltreoceano i salumi cotti, gli affumicati e i crudi con lunga stagionatura, ma non i salami o altri prodotti confezionati con la vescica del mai0ale, a causa dei focolai ancora presenti in Italia di malattia vescicolare suina. Il niet alla bresaola risale invece al 2002, anno della mucca pazza. Quanto poi a produrre negli Stati Uniti, «non è mai stato in programma. Il malinteso nasce dal fatto che il progetto di espansione sul mercato americano prevede uno stabilimento per affettare i prodotti che lavoriamo qui ed esportiamo interi; evitiamo così di trasportare aria: basta un pallet invece dei 4 necessari per spedire le vaschette con la medesima quantità di preaffettati».
Parmacotto, che in Italia conta 385 addetti, che salgono a oltre un migliaio includendo l’indotto, lo scorso anno ha fatturato 168 milioni, con un progresso superiore al 4% sull’esercizio precedente. Di questi, il 16% va ascritto ai mercati esteri, 18 Paesi in tutto con Germania, Francia e Stati Uniti in testa: qui, entro aprile, al primo store monomarca di Manhattan è pronto ad aggiungersi un secondo, affacciato su Madison Avenue. Stessa formula, che prevede sia l’acquisto dei prodotti del territorio e della tradizione tricolore sia il loro consumo nel locale, già peraltro al top nelle guide di settore, «anche perché capace di attirare oltre 10mila clienti l’anno (per un giro d’affari di 2,5 milioni di dollari), pronti a far la fila per entrare in 100 metri quadrati che rappresentano al meglio le eccellenze agroalimentari italiane. Il nuovo pdv avrà una superficie tripla e sarà il nostro fiore all’occhiello». Più avanti il programma di investimenti ne prevede un terzo, anch’esso a Manhattan.

«Chissà che le polemiche senza fondamento in cui siamo stati coinvolti - conclude Rosi - richiamino l’attenzione sul rapporto con le autorità americane per un accordo che elimini i divieti alle nostre esportazioni».

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