Cultura e Spettacoli

Ecco perché Roma (nonostante tutto) non potrà mai morire

La capitale è una macina che stritola mode, tendenze, invenzioni. Il cinismo fatalista è un motore immobile che romba dal Gra ai Fori

Ecco perché Roma (nonostante tutto) non potrà mai morire

«Roma si rilancia sempre», mi dice al telefono Dario Calabretta: ex bodyguard, quello che organizzò e gestì, dal punto di vista della sicurezza, il matrimonio di Francesco Totti e Ilary Blasi. Mi racconta che il locale di Stephane Rochet, l'Hulalà, alla Piramide Cestia, non c'è più. Ma non è sparito (solo il motto di Stephane, mentore in Italia del Cirque du Soleil, «La notte, il più bel momento del giorno», è stato cancellato), perché al posto della discoteca romano-marsigliese ora è attivo un postaccio dove vanno a fare a cazzotti i polacchi - qui c'è da dire che il rilancio non è andato bene. Invece, per restare nel regno notturno, hanno aperto La Villa, che va forte; e poi Ponte Milvio è l'altro polo (a sud ci sono Campo di Fiori, Monti, piazza Farnese) della Movida. Mentre il Goa spinge a manetta sulla musica, e il Jackie O' è stabile a via Boncompagni, solo che fuori, al posto dei Miura e Diablo, ci sono parcheggiate le Bentley Speed e i vecchi «ganci» sono andati in pensione per fare posto alle russe come cavallette giganti e bellissime come giraffe dagli occhi di smeraldo... eccetera, eccetera.

Insomma, Roma non si perde, anzi, si «rilancia» o ricicla anche nei locali e continua a rimanere quella sorta di macina che stritola ogni moda, tendenza, invenzione: prima, tollerandola; poi, assorbendola; infine, defecandola dopo essere stata tracimata dalla sua naturale capacità antropologico-cinica di rilanciarla, appunto, in romanismo: termine filosofico-esistenziale, coniato da Angelo Mellone, nel suo libro monstrum Romani. Guida immaginaria agli abitanti della Capitale (Marsilio, 2012). Romanismo in quanto capacità dilagante di imporre, oltre i propri confini, l'essenza «coattizzata» del leggendario Dna tracciato nello slogan de Il gladiatore: «Roma è un'idea di grandezza... La grandezza è una visione».
Così accade che Roma (anche quando i tassisti stanno incazzati per i trecento metri pedonali di via dei Fori), è bella e pronta sul trampolino di lancio. Che destino! Roma gioca eternamente a poker. La «Macina», in contemporanea, mette in scena: il bimillenario della morte di Augusto e i gioielli di san Gennaro. Non bastavano la grandezza e la retorica su Cinecittà, La dolce vita cui Paolo Sorrentino si dice ispirarsi ne La grande bellezza (lasciandoci il dubbio se Servillo è un grandissimo caratterista o un medio-alto attore, però con una Sabrina Ferilli non eccelsa quanto Anna Magnani in Mamma Roma, ma di sicuro sbalorditivà nella prova tragica come stupefacente fu quella di Tomas Milian in Identificazione di una donna di Michelangelo Antonioni); dunque, non bastavano le battute di Flaiano, Ostia: film «sacro» di Sergio Citti (raccontava che prima di entrare in rosticceria con Pasolini credeva che il pollo avesse quattro «gambe»), Ostia de «Er Zagaglia», dei villini di Piacentini e Libera; degli omosessuali che sono diventati tutti gay con Anton Giulio Onofri (ha pubblicato di recente un romanzo sulla omosessualità intitolato Lo splendore e la scimmia, Lantana) che ride e pretendere di dirsi «frocio»: perché è più virile.
A Roma, alla «Macina», non bastava la moda dei pittori di san Lorenzo, l'educazione «antica» degli abitanti di piazza del Quadraro, dei soprannomi (elencati da Marco Lodoli: «Asso e tre», «Er Macarena», «Er tazzina»...); non basta rimanere un «garage a cielo aperto» come diceva di lei Alberto Moravia nei Settanta. A Roma non basta la pista ciclabile semiabbandonata, ma unica al mondo, che costeggia le anse del Tevere da dove si può ammirare il palazzo della Civiltà e la cupola di san Paolo. No, Accattone è morto ma risorge; le Smart sono più delle zanzare, eppure, se nel mondo le altre capitali tracollano o vengono sgravate dalle nuove potenze economiche e finaziarie (Russia, Cina, Brasile, India), la Roma dei Cesari e dei Papi, dei trasteverini e dei pariolini, della trattoria del bocciofino davanti al mattatoio comunale, del cimitero degli Inglesi e di quello di Prima Porta, che sembra un barrio zeppo di peluche e ex voto, non tracolla né è una new entry: Roma continua a fare le piroette sui Sette Colli. Hanno girato pure il Santo Gra (ho scritto seicento pagine sui quartieri al di qua e al di là di quello che è una gabbia, una aureola, un mondo arcaico e plastificato costretto nella pista che rasenta le tante vie di fuga verso il Lazio o l'intasamento al centro); il prossimo anno uscirà da Mondadori Roma di Raffaele La Capria («si parla della Capitale perché i romani non ci sono più, infatti se ne occupano gli stranieri o gli immigrati» - non a caso lui è napoletano); Bompiani ha riproposto la prosa superbamente inattuale (è da associarsi a Roberto Longhi e Mario Praz) di Giorgio Vigolo, in Roma fantastica (Bompiani, 2013). Quindi: Roma Roma Roma, come canta Antonello Venditti (non voleva più cantarla in polemica con la squadra della Roma, invece ora ha ripreso a farlo). Ma perché, c'è da chiedersi, Roma non muore mai?

Il pittore Luigi Ontani dice che «Roma non è in coma». Dice che quando, come a New York, precipitano due Torri, tutto se ne va in polvere, a Roma invece restano le rovine che sono un accumulo di arte. Anche le città sconfitte da Roma resistono attraverso le opere e i monumenti che i romani vi costruirono. Il poeta Valentino Zeichen, nato a Fiume ma romano da una vita («sono uno straniero, Roma mi ha adottato»), è convinto che la città sia la capitale del mondo. La stratificazione della sua storia è talmente bestiale che nessuno potrà mai sbucciarla come una cipolla. E poi (siamo d'accordo), Roma ha uno dei più grandi poeti dell'umanità: Gioachino Belli. Un poeta «internazionale» perché poeta dello Stato Pontificio. Non un romano, un italiano, ma un cosmopolita che poteva frequentare la trivialità della plebe e la lezione metafisica e eterna. Solo a Roma è consentito vedere: passato, presente e futuro. Il quotidiano può eclissarsi a vantaggio della realtà-irrealtà dell'arte che fu.
Giuseppe Salvatori, l'artista di quelli che furono ragazzi di «Civiltà» negli Ottanta, si esalta nel pronunciare «Roma è una divinità»; «È rassicurante morire a Roma»; «Sono le viscere». Quando ho sentito la parola «viscere» non ho pensato alle Catacombe ma a Napoli (anch'essa per diritto Capitale). Le viscere sono lì, dentro il Vesuvio. A Roma non ci sono interiora. Come diceva Wim Wenders, sbarcato al Colosseo, «Mi aggiro tra fondali cinematografici. Deambulo in un immenso set». Ecco: Roma non muore perché tutto il mondo può arrivare e, a cielo rosato o languido, aiutato dal cinismo di chi ha visto e provato tutto, si mette a recitare la propria parte, pensando magari che la vita (come Roma) è una grande bellezza.

Tanto il biglietto non si paga.

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