Controcultura

Addio all'Occidente liberal ma non a quello liberale

Nel mondo intero è in crisi il progressismo tipico dei «dem» americani. Vittima dello statalismo

Addio all'Occidente liberal ma non a quello liberale

Con il suo nuovo libro su Il tramonto del liberalismo occidentale (Einaudi, pagg. XII-220, euro 17, traduzione di Chiara Melloni), Edward Luce obbliga a riflettere sul declino delle società di tradizione europea all'interno di un mondo globalizzato. Dopo che tanti si erano illusi che la storia fosse finita e che presto l'intera umanità si sarebbe trovata a vivere entro istituzioni democratiche, come aveva profetizzato Francis Fukuyama, oggi ci troviamo in un quadro del tutto diverso. La Russia di Putin e la Turchia di Erdogan sono attori di primo piano della scena internazionale, portatori di progetti che ben poco hanno a che fare con i nostri valori. La Cina sta crescendo a ritmi altissimi e sta aiutando l'intera Asia (e in parte perfino l'Africa) lungo la strada di uno sviluppo che, presto, potrebbe rendere marginale il peso delle economie occidentali. Da parte sua, America ed Europa sono attraversate da fenomeni di aperta ribellione verso l'establishment, come attestano la Brexit, l'elezione di Donald Trump e la stessa crisi tra Spagna e Catalogna.

A giudizio di Luce, tutto questo ci parla del tramonto del liberalismo, dove con tale termine si deve intendere qualcosa di assai più simile al progressismo dei democratici americani che non a quella filosofia politica volta a limitare l'intervento pubblico, la tassazione, la regolazione. A declinare, insomma, è lo spirito neoilluminista che ha retto ogni decisione fondamentale assunta in Occidente negli ultimi settant'anni. Le popolazioni di tradizione europea si scoprirebbero più povere e, per questo motivo, tenderebbero a isolarsi, dato che l'autore concorda con l'economista Branko Milanovic in merito al fatto che «la presente ondata della globalizzazione sta bloccando la crescita dei redditi delle classi medie del mondo ricco».
In realtà, le cose sono assai diverse. Se la crescita è contenuta e a farne le spese è soprattutto la piccola borghesia, questo si deve a un'espansione dello Stato che mai si era vista nell'intera storia umana. Eppure un dato tanto macroscopico non è evocato in nessuna pagina di questo corposo saggio. Lo studioso inglese giustamente ci ricorda che molti occidentali, al momento di andare in pensione, «se la vedranno brutta». Purtroppo però egli non ha capito che ciò dipende dal fatto che l'Occidente ha statalizzato i sistemi previdenziali. Il socialismo che nel 1989 è fallito a Oriente, prima o poi crollerà anche in Occidente, causando gravi sofferenze. Il guaio è che troppi intellettuali - basti leggere gli elogi rivolti a Bismarck e Lloyd George per le loro scelte «sociali» in campo previdenziale - non hanno compreso da dove provengono i problemi e quindi non sanno porre rimedio agli errori del passato.

Quindi l'Occidente non è in crisi a causa di Trump e neppure perché i cinesi saprebbero sfruttare la globalizzazione e gli scambi meglio di noi. Siamo in declino perché abbiamo smarrito quasi ogni legame con ciò che ci ha fatto grandi: con quel contesto istituzionale basato sulla proprietà che, proteggendo il libero mercato, ha favorito la Rivoluzione industriale e, di conseguenza, una formidabile espansione delle condizioni di vita. Per Luce, invece, gli Usa e la Germania, il Giappone e la Cina si sarebbero affermati grazie a politiche poste a protezione dell'industria detta «nascente», e non già nonostante quelle misure. Ma se si continua a pensare che l'apertura dei mercati sia un problema, difficilmente potremo avere un futuro.
Interprete di un liberalismo incoerente, Luce vede il suo mondo tramontare, ma non è detto che l'inabissarsi di ordini politici spesso più tolleranti a parole che nei fatti non offra prospettive interessanti. Nei decenni del cosiddetto «Washington consensus», molti Paesi hanno adottato direttive che in qualche caso hanno allargato gli spazi di libertà, ma che hanno pure rafforzato spesa pubblica, welfare, tassazione e regolazione. Oggi quegli schemi sono contestati da più parti. Nel libro, dunque, il focus della riflessione è sulla sconfitta di quella visione che considera Trump «una minaccia mortale per tutte le più preziose qualità degli Stati Uniti»: un progressismo costruito sui vecchi partiti e sui sindacati, realtà declinanti ma ancora guardate con nostalgia. Luce è certamente deluso dalla piega tecnocratica che ha segnato l'epoca di Tony Blair e Bill Clinton, ma non avverte come ogni Stato invasivo apra la strada a piccole minoranze sottilmente autoritarie. Eppure sono le politiche socialiste dei nostri welfare che hanno consegnato la società a ingegneri sociali senza valori.

Secondo Luce, in questi tempi di populismo staremmo lasciandoci alle spalle l'ottimismo di John Locke per recuperare il pessimismo di Thomas Hobbes. In verità, l'Occidente - specie oltre Atlantico - non è affatto morto e neppure morente. Basti pensare che, mentre si insiste in ogni momento sulla crescita dell'Asia, tutte le maggiori novità economiche degli ultimi anni (da Bitcoin a Facebook, da Airbnb a Uber, ecc.) vengono dall'America. A dimostrazione che il declino statunitense è più un timore che un fatto. È però vero che la nostra politica è in crisi. In particolare, assistiamo a una crescente tensione fra un progressismo avverso alla democrazia (e insofferente per le convinzioni della gente comune) e un'opinione pubblica avversa al progressismo.

Ma solo allargando gli spazi di libertà potremo dare basi più solide alla convivenza civile e recuperare fiducia nel futuro.

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